Silvestri
Giovanni Silvestri
INTRODUDOME
Non è facile per me presentare il poeta Dome Bulfaro e la sua poesia, è una sfida stimolante che spero di poter onorare nel miglior dei modi; in primo luogo perché mi offre la magnifica opportunità di rovesciare un po’ i ruoli: 5 anni fa nella medesima situazione Dome presentava qui la mia poesia…oggi posso togliermi qualche sassolino dalla scarpa. Scherzi a parte credo che sia una bella opportunità ed un privilegio per me proprio perché prima che mio amico Dome Bulfaro è un artista a tutto tondo, e quindi pensando alla sua poesia originale ed intensa vorrei riuscire a definire le mie sensazioni da Fruitore di poesia piuttosto che da amico.
Per fare questo ho cercato di prendere le distanze dall’amico Dome per valutare in maniera disincantata il suo stile, il linguaggio che usa, e quello che i suoi testi mi lasciano.
I suoi lavori sono: “Ossa. 16 reperti” e “Carne. 32 contatti”.
Prima però conosciamo Dome. D B è nato in Liguria e precisamente a Bordighera nel 1971, è insegnante di Discipline plastiche a Crema. Come si diceva Artista e poeta. Come poeta ha partecipato a diverse reading poetici con Giancarlo Majorino; Ossa 16 reperti è stata pubblicata nel “Settimo Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea” nel 2001 edito dalla Marcos y Marcos a cura di Franco Buffoni, con prefazione di Fabio Pusterla in questo libro, che è il caso di dirlo, per quanto concerne la Poesia Italiana, è una delle pubblicazioni, se non la pubblicazione più prestigiosa del panorama italiano. In questa stessa pubblicazione c’è la poetessa Gabriela Fantato, che avremo il piacere di ascoltare qui, con Silvia Monti il 6 Maggio.
Ora: Giancarlo Majorino, Fabio Pusterla e Franco Buffoni sono solo 3 dei maggiori Poeti Italiani che nel corso di questi anni sono intervenuti a questa manifestazione dietro invito proprio di Dome.
Quindi apriamo una parentesi su Dome Bulfaro come curatore di eventi culturali ad ampio raggio. Insieme a Luigi Picchi che conosceremo sabato 29 ha ideato, creduto e realizzato questa manifestazione. Ha ideato i reading poetici in concerto chiamati Artiaperte alla vineria San Giovanni dove sono stati ospitati pittori, fotografi, poeti, scultori, musicisti e ballerini. Ha fondato l’associazione Otip-so, un’associazione tutta tesa ad individuare e promuovere e sostenere giovani talenti della provincia di Sondrio, ha ideato e realizzato i 2 festival di tutte le arti in provincia di Sondrio, e ancora una volta le città di Morbegno, Sondrio e Chiavenna sono state letteralmente invase da Kermesse di vario genere, concerti e conferenze. Di tutte le arti: musica- rock, jazz, classica, celtica-, poesia, scultura, pittura, fotografia, e ancora cinema, teatro e danza. Chi più ne ha più ne metta. Insomma un lavoro enorme, sia per quanto concerne la mole, e lo posso assicurare perché c’ero, sia per quanto concerne i benefici squisitamente culturali di bellezza, gioia e passione di cui questa provincia ha potuto godere. Anche grazie a lui
Dicendo questo definisco l’uomo Dome Bulfaro: appassionato, curioso, instancabile, trascinante.
Più che accentratore “Centro” di un’energia che scorre libera. Ecco che arriviamo all’artista: perché l’arte NON è egoismo. Dome l’abbiamo conosciuto come curatore di eventi, come catalizzatore di queste forze che insieme hanno creato un qualcosa che ha un grande significato, ma a mio giudizio, e questo è il caso di evidenziarlo, il suo percorso di artista e uomo, che chiaramente è inscindibile, dà la forma e la sostanza di quello che l’arte è o dovrebbe essere: al servizio dell’uomo. Si parla anche di questo quando si insiste sul talento, l’esperienza e la scintilla.
E adesso entriamo direttamente nel merito della poesia di Dome.
Come dicevo prima Ossa 16 reperti è stato pubblicato nel 7 libro di poesia italiana contemporanea, questo credo dà già un’indicazione piuttosto precisa della qualità del lavoro di Dome Bulfaro come poeta. poi ci sono diversi premi che è il caso di citare; con poesie estratte da Carne 32 contatti
Premio Corciano 2003. Premio del Presidente (Vivian Lamarque)
Il racconto ritrovato Premio città di Torino 2004. Secondo Premio (in giuria Milo De Angelis, Antonella Anedda, Marta Donzelli, Vera Vasques)
Premio Città di Avezzano 2004. Terzo Premio 2004 (in giuria Umberto Piersanti, Renzo Paris, Elio Pecora)
Premio Città di Monza 2004. Primo Premio
Premio Città di Galbiate 2004. Secondo Premio 2004 (Presidente Andrea Vitali)
Premio Anna Biella 2005. Premio Speciale della Giuria 2005 (in giuria Ivan Fedeli)
Premio Lago Verde 2005. Finalista
Premio Montano 2005. Finalista per il libro inedito
Però; Ossa, Carne. Ma cosa sta costruendo insomma il poeta Dome Bulfaro?
Nella prefazione ad Ossa il poeta Fabio Pusterla dice alcune cose molto significative parlando dei “reperti”,fra le altre: “ a dispetto della bizzarria tematica che li incornicia non si compongono in una unità riconoscibile; ciascuno di essi agisce invece come un frammento, schiudendo a tratti prospettive arrischiate, visioni immaginarie e talvolta sorprendenti(…) la ricerca di una unità originaria di un prima suggerito dalle ossa” ovvero è come se questa poesia fosse passo passo ri-costruita dal paziente lavoro di un archeologo.
Strano, vero?
Bene, allora diamo un’altra preziosa e veritiera indicazione: la poesia di Dome Bulfaro è decisamente originale.
Pensate quindi che “Ossa. 16 reperti” e “Carne. 32 donazioni”, che potremmo anche considerare come 2 sillogi ben distinte fanno parte in realtà di un lavoro in divenire e che con altre 3 sillogi andranno a formare un vero e proprio corpus poetico completo che definisce l’uomo, o come l’ha temporaneamente battezzato Dome “Uomo n 1000”.
Altra considerazione ed indicazione: è una mole di lavoro stupefacente che nasce nel 1997 e che da allora, anche in questo preciso momento, come un vero e proprio corpo umano cresce, muta, nelle sue cellule; che come corpo poetico subisce continue scorribande poetiche” variazioni, completamenti, eliminazioni” almeno nel caso di Carne.
È una metamorfosi dal di dentro di un corpo fatto ben definito, sentite cosa dice Dome in una sua poesia- forse è il caso di cominciare ad ascoltare anche la sua poesia: “ quando un uomo stabilisce un record mondiale o uccide io mi sento in parte atleta e omicida colpevole anch’io come gli altri di esserci persi nel labirinto dell’impronta di aver creduto che il corpo fosse una prigione, e non il bozzolo del cielo”.
Ecco qui sintetizzato una parte del pensiero di Dome.
Ma ecco un buon esempio del suo stile.
Ultimamente ho avuto modo di confrontarmi con lui sulla sua poesia e mi ha rivelato che nella prima stesura della prefazione ad Ossa Pusterla affermava addirittura che la poesia di Dome è inclassificabile.
Questo mi dà da pensare.
Perché se voglio parlarvi della poesia di Dome voglio darmi una definizione chiara e oggettiva di ciò che sto scoprendo: Dome è una voce assolutamente originale e fuori dall’ordinario, è una poesia visionaria, tagliente, a tratti mistica, Dome con la sua poesia sta cercando di capire “chi è l’uomo”.
Fra poco quando lo sentirete leggere i suoi testi vi invito anche a tener presente che quindi non c’è un tema, ma tutti i temi, e non c’è solamente un punto di vista ma tutti i punti vista possibili di un uomo che anche inconsapevolmente si compone e ricompone di frammenti perché un uomo è fatto di mille e mille sfumature e non è mai un’isola.
Prima di tutto un uomo è figlio di un padre e di una madre, a volte è fratello, è uomo o donna, è nipote, ovvero figlio di un figlio, prima o poi padre o madre lui stesso, e si compone di ossa, carne, sangue, spirito, energie che suo malgrado lo attraversano, in una continua ricerca di qualcosa di assoluto e definitivo che nemmeno possedere un corpo che prima o poi finirà con la nascita-morte può turbare.
Questa è anche la poesia di Dome.
Una, mille voci allora, in cui il poeta è interprete di sguardi, capta parole sussurrate non solo con la bocca o l’orecchio ma anche, sentite i titoli di anche solo 2 delle poesie di Dome, anche con “l’anca di un angelo scartato” o il “cenacolo matriarcale sul retro della coscia”.
Lui lo chiama un big bang poetico. Dice- e a ragione- che il corpo è poesia in potenza.
Dome insomma crede e sa che un poeta deve prima di tutto saper ascoltare. Io affermo anche che forse l’arte di farsi attraversare dalla poesia è come quella di porre domande, dare una visione unica di un vissuto che forse fino ad allora era non banale ma certamente scontato ed abitudinario.
Prima vi dicevo le mie convinzioni, una poesia visionaria, mistica, è forse il caso di scomodare nomi illustri, anche se per motivi non banali. Dome stesso cita William Blake, poeta e pittore. Dome, proprio pensando a Blake, sostiene che la poesia è un matrimonio che si scrive tra cielo e terra.
Dome in una sua poesia ammette candidamente: “io non so nulla di poesia ascolto il polso con l’orecchio e trascrivo sulla carta ciò che ogni rivolo mi detta”. Altri nomi, altri esempi, Cesare Pavese ne “Il mestiere di vivere” si chiede questo: A proposito dei Fleurs du Mal di Badeulaire il fatto che B le abbia composte così una ad una convincenti e insieme avvincenti nel loro insieme come un racconto, non potrebbe derivare dalla concezione morale, giudicante, esauriente del loro tutto?(..)
C’è dell’altro. Dato che una poesia non è chiara all’autore nel suo significato più profondo se non quand’è tutta compiuta, com’è possibile a questo costruire il libro, se non sulle poesie già fatte?
Il poeta Dome Bulfaro risponde a questa domanda costruendo un corpo che come dicevo prima è in mutazione, compiendo Uomo n 1000, rispondendo con altre domande.
Queste voci infine: uomo, donna; come dire da sempre e per sempre, bambina, zio, nonno, ma anche natica, occhio, da tutto e in tutto c’è poesia.
Vi dico subito che l’ascolto di alcuni testi di Dome è disturbante, il corpo umano è fatto anche di scorie, no? Ma è anche mistico, stupefacente e genuino percepire la costruzione di questo corpo.
Lascia giustamente sgomenti.
Ho un altro nome illustre da fare, un nome che mi è arrivato in dormiveglia mentre rimuginavo sul fatto che il lavoro, la mole di lavoro di Dome Bulfaro mi ricordava per certi versi qualcosa. Poi ci sono arrivato. Ci sono delle attinenze infatti, tra tutte queste voci che vibrano nell’aria, formando un corpo e creando poesia con un precedente illustre quale “L’Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Master. La differenza è che tutti, tutti dormono sulla collina. Se in Ossa potremmo azzardare che sono voci in un certo qual modo perdute e ritrovate, in carne fortemente ci accorgiamo che il corpo si forma tendendo verso qualcosa che inequivocabilmente è vivo. Le lapidi, le pietre del cimitero di Petersburg e Lewistown raccontano di certo un rimpianto, è una poesia chiusa, la voce ben definita ad esempio del reverendo Lemuel Wiley, dopo questa breve comparsa non dirà più nulla.
Le voci di cui si fa interprete Dome Bulfaro invece si perpetuano all’interno di ogni singola cellula e linfa vitale, e ancora su su fino all’origine che ha creato quell’uomo e quella donna e poi ancora giù con tutte le variazioni del caso fino a divenire madre e padre, ed essere parte di questa avventura infinita.
L’antologia di Spoon River fa della sua forza evocativa la morte a cui la poesia ha strappato qualcosa ma certamente è il rimpianto di non poter più dire altro che questo, nella mole di lavoro impressionante di Dome che va avanti dal 1997 e quindi da ben 9 anni, se proprio voglio fare dei paragoni con Edgar Lee Master, la differenza è che in questo Uomo 1000, e ancora non ci è dato di sapere come andrà a finire, la forza evocativa è una profonda e per questo ancora più significativa speranza. Capite? Devo ancora dire 2 cose soltanto e poi lascio la lettura a Dome, la prima cosa è un suggerimento particolare per voi, Dome infatti ha un modo molto intenso e a mio avviso molto bello di leggere i suoi testi, quindi per gustarvele bene potreste benissimo ascoltare ad occhi chiusi. La seconda è una citazione da una sua poesia che un’altra volte forse rende lo spirito che scorre nella poesia e che vorremmo infondere a questa giornata così bella e intensa. “Cantare
questo è il solo sangue che il poeta può donare
consonante dopo vocale, dissanguarsi nel tovagliolo
del bar scrivere - le poesie sono di chi se le beve –“
buon ascolto
Barbonaglia
Marco Barbonaglia
Tutta la forza della poesia: il talento, l'esperienza, la scintilla
19 luglio 2008
Frugando nei ricordi più lontani, la poesia, al primo incontro, è spesso qualcosa da imparare a memoria. Come una filastrocca ma più difficile e meno divertente.
Negli anni, poi, tende a diventare un insieme di segni, di parole che danzano al ritmo di una strana musica. Una creatura complessa, mai disgiunta da un commento.
Accade, però, a molti (studenti e non) di trovarsi, un bel giorno, di fronte ai versi di Baudelaire o Rimbaud, ad un sonetto di Shakespeare piuttosto che ad un'opera di Allen Ginsberg o di Prevert e di guardare, finalmente, quella creatura con occhi diversi. D'un tratto, si rimane incantati dalla bellezza e dalla magia che la pagina stessa sembra sprigionare. Le parole evocano immagini misteriose e affascinanti che commuovono ed emozionano, destinate a rimanere impresse nella memoria anche quando, ormai, si è chiuso il libro.
E' questo il momento della vera scoperta della poesia. Chi l'ha provato lo sa e continuerà a leggerla per tutta la vita, magari saltuariamente, fosse anche solo per ritornare, di tanto in tanto, ai versi che lo avevano fatto innamorare tanti anni prima.
Certo, non stiamo parlando di un genere letterario capace di sfornare best-sellers a getto continuo. Le raccolte poetiche non hanno milioni di lettori, a meno che l'autore non sia un nome leggendario, come Pablo Neruda, Dylan Thomas o, magari, Charles Bukowski.
E' bello, però, ogni tanto, incontrare qualche nuovo artista capace, con i suoi versi, di sorprenderci e appassionarci . Molto interessante, in questo senso, è la raccolta Tutta la forza della poesia: il talento, l'esperienza, la scintilla, edita da LietoColle. Il titolo è lo stesso di una manifestazione che si svolge, ormai da cinque anni, a Morbegno, in provincia di Sondrio. La formula è quella di affiancare, ad un gruppo di giovani poeti, alcuni colleghi di fama nazionale ed internazionale. Nomi di prestigio nel campo della poesia, come, ad esempio, Giancarlo Majorino,Franco Loi, Antonella Nedda, Gabriella Fantato,Tomaso Kemeny.
Vero nume tutelare dell'antologia, invece, è Claudio Recalcati, vincitore, con il suo terzo libro dal titolo Un altrove qualunque, dell'edizione 2002 del Premio Internazionale Eugenio Montale. A lui, è affidata la prefazione di Tutta la forza della poesia, che contiene una nota introduttiva per ogni poeta presente nella raccolta.
I protagonisti sono dieci e alcuni di loro , ci tiene a sottolineare Recalcati, «stanno già dicendo qualcosa di importante per la moderna lirica».
Un nome noto, ad esempio, è Dome Bulfaro, vincitore di numerosi premi e attivo nell'organizzazione di diverse rassegne italiane. Non a caso, è proprio lui ad aprire l'antologia con un poema di cinque pagine che, per essere apprezzato fino in fondo, andrebbe letto tutto d'un fiato. Tema centrale della sua opera è il corpo come chiave dell'esperienza e di una conoscenza che passa attraverso la carne, i sensi, le ossa. Una fisicità che ritorna anche in questa occasione in Frontale, 16 contatti, in ognuno dei quali ritroviamo, appunto, una parte del corpo umano.
Tra gli autori della raccolta, poi, spicca Elvis Ghibello, definito a ragione da Recalcati « uno dei migliori esponenti di questa generazione di poeti». Un artista giovane ma, per molti aspetti già maturo, capace di scrivere versi carichi di forza e immediatezza, senza mai risultare avventato . Le parole delle sue poesie (una su tutte, la splendida A rottadicollo) trasmettono passione, tensione, talvolta con velo di malinconia, in altri casi con la giusta dose di humor, non priva di una certa vena surreale. Grande osservatore, Ghibello riesce, inoltre, a rievocare luoghi reali e angoli della memoria con straordinaria nitidezza.
Nel libro troviamo, poi, « il canto morbido e triste» di Marco Carella, che mette al centro della sua opera una quotidianità malinconica, pronta ad assumere tinte drammatiche, le righe ispirate di Denis La Commara e ancora il senso di smarrimento e la precarietà della vita espressa dai versi sicuri di Stefano Lorefice. Proseguendo nella lettura ci imbattiamo, quindi, nelle Immagini fuori cornice di Piero Luzzi, in Elena Milani, con la sua poesia dell'io, intimista e commovente e in Simona Monti, già vincitrice di diversi premi e apprezzata dalla critica. Chiudono, infine, l'antologia il saggista e poeta Luigi Picchi, organizzatore della prima rassegna Tutta la forza della poesia, presente qui con la raccolta Crescite e Nicola Scinetti con l'originale Contiene solfiti, insieme riuscito di brevi, ermetiche liriche
Tutta la forza della poesia: il talento, l'esperienza, la scintilla.
LietoColle.
132 pagine, 13 euro.
http://www.lietocolle.it/
Fedeli
Fedeli
Il corpo infinito.
Dome Bulfaro, poeta, artista e instancabile organizzatore di eventi di poesia, con “Carne - 16 contatti” (edizioni d’if, 2007), chiude il cerchio di anni di ricerca semantica, fonica e lessicale attorno al tema del corpo, alla sua aggregazione spasmodicamente dolce in grumi di materia, alla sua carnificazione mediante il linguaggio. E’ ricerca di tutto rispetto: seria, in divenire, non ancora conclusa. Il libro presenta una serie di movimenti compatti sia stilisticamente che nel contenuto. Ne deriva una poesia-corpo (che nella nota l’Autore immagina poesia-farfalla trafitta da uno spillo) che si ricrea, quasi in modo autonomo, per gemmazione, in un’unica voce capace di trasfigurare l’elemento carne, la pura materia, rendendola suono, potere immaginifico. Alla lettura dei testi si è come attraversati da una forte scossa di energia, grazie alle tonalità accese, armonicamente replicabili in versi lunghi e armonici nel loro procedere sillabico. L’originalità sta, poi, nel richiamo plastico, ossessivo, all’idea del mutare, migrare nel corpo, uscirne, rifarsi. Una poesia sicuramente unica, drammaticamente materica. Un libro che è parte di un progetto in divenire, incompleto per necessità, per dovere verso una forma nuova, fatta di muscoli e abbandono.
Carne - 16 contatti ha vinto il Premio di Letteratura intitolato a Giancarlo Mazzacurati e a Vittorio Russo - anno 2006.
Microantologia
Non comprendi gli strilli nel tuo cranio
se ho fame voglio per me tutti i suoni
o semplicemente odio l’odore dei mediocri
nè comprendo la calma che hai in gola
perchè non puoi sposarmi se ci amiamo
mi dici che ogni figlio ammazza il padre
per farsi grande il padre pone il cranio del figlio
nel palmo vedi - dice - basta una leggera
pressione per fracassare il mondo
***
La fronte di mio padre è lunga otto ore
non ha capelli intorno ma irte donne
a lutto, fra gli occhi ha un cestino dove
porre baci impacchettati da troppi anni.
La fronte di mio padre è pianura al sole
ma nel resto è come noi: non finito
scabro dolore, per questo ti prego
ora padre lascia che tuo padre sia io
la mano sotto la nuca la mia
sia, padre morto, tu bambino mio.
(…)
Franco Buffoni
FRANCO BUFFONI
Quando sento odore di Inquisizione, reagisco sempre
(intervista a cura di Luigi Nacci)
***
Luigi Nacci (LN): Franco Buffoni: poeta, romanziere, traduttore, saggista, docente universitario, giornalista. Il suo esordio in poesia è datato 1979 con l’uscita della raccolta Nell’acqua degli occhi, all’interno della collana “Quaderni della Fenice” [Guanda]. Cosa pensa del suo esordio e quanto è cambiata la sua scrittura da quella che Raboni definì come una “quieta tragedia”?
Franco Buffoni (FB): Se non ricordo male disse “quieta disperazione” e non “quieta tragedia”. C’è stata una naturale evoluzione in questi tre decenni. L’esordio vero come poeta è del 1978: Raboni mi fece pubblicare prima su “Paragone”; nel 1978 avevo trent’anni, quindi il mio esordio non è stato precoce; ho scritto poesie quando avevo 19-20 anni e poi ancora nei primi anni Settanta, ma non le ho mai pubblicate e poi ho distrutto tutto; ho ricominciato a scrivere poesia in modo organico, con un progetto, dal 1976, quindi il mio è un esordio maturo, e difatti la mia maturazione poetica – e qui rispondo alla tua domanda – è molto cadenzata, molto lenta. La mia sensazione – poi naturalmente il giudizio lo daranno altri – è di avere raggiunto la mia vera maturità poetica soltanto in una zona che sta verso Il profilo del Rosa [Mondadori, 2000] anche se la scrittura di quel libro prende tutti gli anni Novanta. Questa per me è una constatazione oggettiva: sono convinto che sia stato tutto un apprendistato fino ad allora. D’altro canto esistono poeti che hanno una maturazione lenta e arrivano a dare il meglio di sé a cinquant’anni: prendi ad esempio l’americano Wallace Stevens, che ha scritto le sue cose più belle addirittura a sessant’anni; o in Italia Giudici - che era fuori dai poeti suoi coetanei di Quarta Generazione – che giunge a maturazione dopo i quarant’anni (cfr. La vita in versi, etc.). Bisogna avere vita lunga… per contro, ci sono casi anche in Italia di poeti che hanno avuto un esordio molto precoce, con il loro libro migliore a trent’anni o addirittura a venticinque, e che poi per il resto della loro esistenza non fanno che inseguire quel libro. Le cause possono essere molteplici: se ti trovi a venticinque anni in una città che è al centro di una certa evoluzione intellettuale e poetica, e hai degli interlocutori molto validi, hai tutto un ambiente che ti stimola e la tua poetica – io sono uno che fa il discorso sulle poetiche – matura molto precocemente, puoi ottenere presto dei risultati ragguardevoli. Ma non è detto che la tua poetica nei trent’anni successi continui ad evolvere. Quindi direi che sono due situazioni diverse, poi naturalmente c’è anche la via di mezzo; appartenendo io ad una delle due situazioni, le sottolineo per dire che entrambe possono capitare. A me è capitata l’altra, forse perché ho una carburazione lenta, sempre molto riflessiva, ragionata, e poi perché nel decennio in cui solitamente gli esordi precoci avvengono, cioè tra i venti e i trent’anni, io facevo altro; a diciotto anni scrivevo poesie credo come tutti e poi le ho distrutte perché non mi sembravano assolutamente degne di pubblicazione. Quando esordisco come poeta a trent’anni anni ho già dei libri di saggistica pubblicati, sono ricercatore dall’Università. Avevo fatto un lungo apprendistato all’estero (per il dottorato in Scozia, e poi in Francia e in Inghilterra), avevo fatto molte cose fuori dall’Italia mirate ad una crescita staccata dall’ambiente della poesia italiana, magari molto più volta alla scrittura in traduzione, ad esperienze di tipo eterogeneo, anche di impegno politico e civile… quindi, io arrivo a trent’anni anni con un bagaglio di esperienze che avevano qualche attinenza con la poesia ma non particolarmente. Rispetto ai miei coetanei ho iniziato dieci anni dopo. Torno a quello che mi chiedevi: rispetto alla scrittura della fine degli anni Settanta, forse la differenza più evidente è dal punto di vista metrico, nel senso che allora giocavo molto su quinario, quinario doppio, senario, senario doppio, settenario e ottonario; la mia prima raccolta - uscita in uno dei Quaderni Collettivi di Guanda per le cure di Raboni con Maurizio Cucchi redattore - era fortemente giocata su questa metrica in punta di penna. Ed è su questa metrica che poi Raboni ha costruito quel giudizio di “quieta disperazione” (secondo me aveva visto proprio giusto); poi c’è stata un’evoluzione che mi ha portato ad una metrica di maggiore respiro. Devo dire che con Raboni il rapporto è continuato sino alla sua morte. Ho una bellissima lettera che mi ha scritto dopo aver letto nel 2004 il dattiloscritto di Guerra [Mondadori, 2005]... Gli ho sempre mandato le mie cose prima che uscissero. E questa è una delle ultime lettere in assoluto che ha scritto, è datata 23 marzo 2004. Parla di Guerra e mostra una continuità di rapporto e di scambio poetico, dà un giudizio molto positivo sulla raccolta, assolutamente propositivo nei confronti del futuro. Quindi direi, rispondendo alla tua domanda, che la differenza è anzitutto di tipo metrico. Quanto alle tematiche, forse stavano più sottopelle, più sottintese, mentre oggi sono più programmatico, quando un scrivo un libro lo dico esplicitamente. Oggi sono un anceschiano a tempo pieno, molto consapevole del progetto, della poetica. Allora tutto questo era più intuitivo, i temi però c’erano già.
LN: A Nell’acqua degli occhi sono seguiti molti libri: I tre desideri [San Marco dei Giustiniani, 1984], Quaranta a quindici [Crocetti, 1987], Scuola di Atene [Arzanà, 1991], Adidas [Pieraldo, 1993], Suora carmelitana e altri racconti in versi [Guanda, 1997], Il profilo del Rosa, Theios [Interlinea, 2001], Guerra, Del maestro in bottega [Empiria, 2002], Lager [d’if, 2004], Noi e loro [Donzelli, 2008]. Quale è, se c’è, il filo rosso che li unisce o che potrebbe unirli tutti?
FB: Il filo rosso tematico forse è più di tipo procedurale che contenutistico, perché la mia è una scrittura che parte dal dettaglio, dal particolare, e tende ad essere poi – almeno nelle mie intenzioni – universale, fruibile da qualsiasi punto di vista. Io posso mettere in campo me stesso, con le mie caratteristiche, le mie somaticità, e miro a farlo in modo molto nitido per permettere anche a persone con tratti completamente differenti di riconoscersi in una “umanità”. Oggi lo faccio deliberatamente, allora lo facevo in modo più intuitivo, perché la mia maturazione oserei definirla come una presa di coscienza; in sostanza non è che io adesso pensi in modo diverso rispetto a quando avevo trent’anni, semplicemente sono più consapevole. I grandi cambiamenti solitamente sono di tipo politico, culturale; io da questo punto di vista non ho avuto grandi trasformazioni: lottavo per i diritti civili nel 1974 in Italia quando c’era la battaglia per il referendum sul divorzio, lotto per i diritti civili in Italia oggi, per la procreazione assistita, i Pacs e quant’altro; la mia posizione politica è sempre stata quella: ero un compagno di Università (la Bocconi) di Emma Bonino, per intenderci. Sono uomo da diritti civili, uomo da stato costituzionale di diritto, e naturalmente tutto questo si riflette anche nella mia poesia. Mentre c’è gente che conoscevo trenta o quarant’anni fa (uno anche dagli esordi poetici precoci), allora stavano con “Servire il popolo” e oggi me li ritrovo berlusconiani o leghisti. Questo mi addolora molto, però lo constato. Credo di essere stato fortunato – forse perché gli anni duri della mia formazione sono stati inglesi, scozzesi per la verità – di costruirmi una concezione filosofica – e chi ha letto il mio libro Più luce, padre [Luca Sossella Editore, 2006], se ne rende conto immediatamente – analitica: è filosofia della scienza; Stato di diritto contrapposto allo Stato etico, ragionevolezza contrapposta a razionalità, in sostanza Hume contro Hegel, per fare una sintesi efferata. La formazione è stata quella ed è stata molto netta; non ho avuto sbandamenti in seguito, perché il basamento era molto solido e tuttora faccio riferimento a quel basamento. Se vedi il nuovo romanzo breve (con cinque racconti) uscito per Zona [Reperto 74 e altri racconti, 2008], parlo di quegli anni e mi rifaccio a queste esperienze.
LN: Resterei sul tema della rievocazione e della memoria. In Poeti italiani del secondo Novecento [Mondadori, 1996; seconda edizione aggiornata 2004], a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, nella nota introduttiva che precede i suoi testi…
FB: Luigi, dammi del “tu”, sennò io ti do del “voi”…
LN: Va bene… dunque, nella nota suddetta si parla di «peculiare cifra poetica, largamente debitrice dell’istanza narrativa, che ha pochi precedenti nella più recente tradizione italiana […]; ma è quando la vocazione narrativa si incontra con lo scavo autobiografico (e quindi col bruciante repertorio dei ricordi, delle cose scomparse, di un vissuto che si prolunga nel presente e fa intravedere il futuro), che la poesia di Buffoni raggiunge i risultati più importanti». In un’intervista recente, rilasciata alla rivista “Sincronie”, dici: «Neanche le avanguardie più sfrenate sono riuscite a scrivere senza tenere conto della memoria […] il ricordo è una miccia che esplode e fa esplodere». La memoria è anche uno dei perni del tuo recente Più luce, padre, esito di svariati anni di elaborazione di documenti ritrovati fra le carte di tuo padre (materiali che hanno portato, precedentemente, alla nascita di Guerra).
FB: Mi permetto di interromperti. Quel giudizio, che credo sia di Giovanardi (anche se non è firmato), secondo me è un giudizio calibrato sul Profilo del Rosa…
LN: Solo su quello?
FB: Diciamo Profilo del Rosa e Suora carmelitana, cioè i libri che Cucchi e Giovanardi avevano in mano quando scrissero quelle note, e peraltro mi sta bene perché Profilo del Rosa segna la mia maturità artistica. Credo che quel giudizio potrebbe essere oggi un po’ più sfumato perché in Guerra il discorso si fa più complesso: non è la memoria personale – come accade nel Profilo del Rosa – ma la memoria universale: assumo l’esperienza del “padre” e vivo quell’esperienza, il concetto di memoria si dilata, non scompare, diventa più complesso.
LN: Mi hai già risposto in parte, perché la mia domanda verteva proprio sul concetto di memoria e autobiografia, e quanto questi elementi potessero essere considerati fondanti all’interno della tua poetica…
FB: Sì, direi assolutamente fondanti, trovando un punto di coagulo certamente nel Profilo del Rosa e divenendo altro con Guerra e Noi e loro e anche con il libro di poesia che uscirà per Guanda l’anno prossimo che s’intitolerà Roma; poi lavorerò su un nuovo libro di narrativa che si intitola Aldo & Nabil, un nome italiano e un nome arabo.
LN: Sembra legato a Noi e loro.
FB: In qualche modo sì. Per una questione di contratti editoriali e di accordi già presi, ho anticipato il nuovo libro di poesia, Roma. La ragione è molto semplice: Noi e loro doveva uscire da Guanda e con Donzelli avrei dovuto fare un Selected poems, questo era l’accordo. Poi mi sono accorto che, avendo un altro libro di poesia – Roma – che incalzava, e che stava maturando, ho pensato fosse inutile fare un Selected poems; in questo momento non ne ho bisogno perché ho tanta roba nuova e fresca che mi sta venendo fuori, appunto, quella maturazione tarda di cui dicevamo, e poi sono libri tutti diversi l’uno dall’altro, tutti isolabili. Tra l’altro so che al direttore editoriale di Guanda, Luigi Brioschi, è piaciuto molto il titolo Roma… forse perché c’è il lombardo – che vive a Roma da dieci anni – che scrive il libro su Roma. È un libro in cui appaiono vari personaggi del passato che sono venuti a Roma – come ho fatto io – per lavoro o per altre ragioni, e a Roma hanno vissuto, hanno sofferto, hanno goduto, interagito con una realtà che è un mondo, un universo e che, nel mio libro, io tendo a far rivivere oggi, insieme diacronicamente e sincronicamente. Ci sono sei personaggi, di cui non faccio mai il nome esplicitamente nel libro, che intonano le varie sezioni; le prime due sezioni sono pasoliniane, senza mai nonimare Pasolini, poi ci sono Leopardi e Keats: Leopardi suddito dello Stato Pontificio (questa è una cosa che noi spesso dimentichiamo). In una poesia cito quel verso de La ginestra in cui Leoparadi ricorda che anche la cittade (cioè Roma) era cinta di ginestre. Queste ginestre attorno a Roma sono le stesse che vengono perforate dalla carrozza di Keats, che attraversa la palude pontina proveniente dal porto di Napoli e viene a morire qui a Roma, a Piazza di Spagna. Nel suo epistolario Keats racconta che, nel mezzo della campagna romana, ad un certo punto gli apparve un cardinale vestito da cacciatore: sparava agli uccelli in cielo. Keats aveva già scritto L’Ode a un Usignolo e quindi che Roma accogliesse l’autore di quell’ode con un cardinale sparante agli uccelli mi è parsa un’immagine piuttosto significativa. Un altro personaggio è Galileo che qui sopra, al Gianicolo, piazzò il cannocchiale con cui scoprì i satelliti di Giove. Curiosamente, il suo punto di osservazione si trovava – che oggi è ne l parco dell’Accademia Americana – si trovava proprio sopra il Bosco Parrasio, dove si riunivano gli arcadi. Quindi mi viene naturale contrastare i vari Agesandro Tesporide (al secolo Monsignor Ciccolini), autori di inni e omelie (con i loro tolemaici crani, che sarebbe come dire – oggi – con i loro anti-relativistici crani) – a Galileo. Tengo sempre sottopelle questi contrasti, però informano tutto il libro. Poi ci sono le ultime sezioni che fanno da pendant a quelle pasoliniane. C’è la Roma degli anni Cinquanta, ma sempre con la contemporaneità che dialoga con questi anni Cinquanta, e persino quella degli anni Trenta e Quaranta. C’è Sandro Penna, il fascismo, è un tornare indietro nel tempo a quegli anni che io non ho vissuto. Non li ho scelti io questi personaggi, sono venuti da soli, chiaro che sono rappresentativi di qualche cosa. Come chiudo Roma (e manca davvero poco) – libro del quale sarò lieto di darti l’anticipazione per quelle belle edizioni triestine de “i libretti verdi” –- riprendo in mano il romanzo Aldo & Nabil e spero nel giro di un anno, un anno e mezzo, di finirlo.
LN: Restiamo ai nomi. Prima hai nominato il padre, ed ora vorrei arrivare ai padri, i maestri, i modelli. Provo a fare alcuni nomi: Zanzotto, Caproni, Raboni. È una lista che inizia correttamente? Se sì, come potrebbe continuare?
FB: Sì, sono tutti nomi che io cito in Più luce, padre. Zanzotto è il poeta che ammiro maggiormente in assoluto – anche se non lo amo – perché è quello che riesce ad includere il dato scientifico nella scrittura poetica, ed è un percorso che sento vicino al mio modo di procedere. Lui aveva un figlio che studiava fisica, così si è interessato a questi argomenti, io ho una sorella che è un fisico atomico, quindi per me è stata la stessa cosa: per me il dato scientifico è fondamentale. Mario Luzi pensa allo stesso modo nel 1950 e nel 1990, nel senso che per lui il mondo non era cambiato, forse era rimasto tolemaico. Zanzotto no, ha avuto una evoluzione micidiale dal punto di vista scientifico e ha cercato in tutti i modi di farla uscire in poesia, credo sia un caso abbastanza unico in Italia e questo me lo rende fratello e vicino anche se poi come sensibilità, come gusto, come debolezza, preferisco Caproni. Mi trovo meglio con lui, e con Raboni, più a mio agio, se devo leggere una poesia alla sera prima di addormentarmi preferisco una di Caproni o Raboni piuttosto che una di Zanzotto. Tuttavia mi rendo conto ad esempio che Raboni subisce una involuzione da un punto di vista ideologico in senso lato, nel senso che rifiuta il dato scientifico, si chiude attraverso il concetto di pietas che io condivido, ma che lui finisce per ancorare alla dogmatica cristiana, si richiude in una situazione che invece da un punto di vista intellettuale dobbiamo superare se vogliamo evolvere come specie. E vedo Zanzotto andare nella direzione giusta, al superamento delle ideologie, che naturalmente non vuol dire annullamento della spiritualità, ma significa una spiritualità disancorata dai dogmi, dal cristianesimo, pur salvando tutto il patrimonio umanistico che il cristianesimo si porta dietro e il patrimonio umanistico che il marxismo si porta dietro… una spiritualità laica che guarda al futuro, come scrivo negli ultimi capitoli di Più luce, padre.
LN: Arriviamo all’oggi: tra i tuoi coetanei, quali poeti stimi maggiormente e quali invece, in qualche maniera come Zanzotto, ammiri anche senza sentirli vicini a te, senza amarli?
FB: Parlare dei propri coetanei è sempre difficile perché i rapporti personali, di amicizia, di colleganza, finiscono con l’essere talmente intensi che a volte fanno velo alla possibilità di essere critici distaccati, è naturale che sia così. I miei interlocutori poetici sono stati i grandi vecchi – Fortini negli ultimi dieci anni della sua vita, Raboni, Ferruccio Masini che è stato il mio primo direttore di dipartimento all’università, e potrei citarne tanti altri, magari in modo meno intenso: Giudici, Bigongiari, Nelo Risi, col quale sono tuttora in contatto, o Luciano Erba. Questi i padri, gente che aveva venti, trenta, quarant’anni più di me. Più recentemente dialogo con i più giovani – in questo facilitato anche dall’esperienza dei Quaderni – che mi ha portato molto spesso a riflettere ex novo, anche sul piano delle poetiche. E potrei fare molti nomi, tra quelli che a partire dall’inizio degli anni Novanta ho pubblicato, a cominciare da Guido Mazzoni e Antonio Riccardi per proseguire con Massimo Gezzi o Dome Bulfaro. Ma sono molti: non vorrei fare torto a qualcuno, stilando un elenco. La mia necessità di avere interlocutori in poesia l’ho dunque volta sui più giovani; e sono nate bellissime amicizie; loro magari credono di aver ricevuto o imparato qualcosa da me, ma in realtà sono io che ho ricevuto perché ho rinnovato e rinfrescato il mio rapporto con la poesia attraverso di loro. Poi è evidente che all’interno della coetaneità ci stanno tante cose: abbiamo prima citato Maurizio Cucchi, che era il redattore dei Quaderni della Fenice quando io esordii, col quale c’è un rapporto che dura da trent’anni; rapporto di amicizia saldissimo, fraterno, ce l’ho con Gabriele Frasca, Fabio Pusterla, Gianni D’Elia. E naturalmente con Valerio Magrelli, siamo anche colleghi all’università, insegniamo agli stessi studenti; con Milo De Angelis c’è il rapporto più antico perché Milo lo conosco addirittura dal 1969, eravamo proprio ragazzini e ancora adesso, quando ci si vede, ci si parla come se fosse allora, non ci sembra neanche possibile che siano passati quarant’anni, perché entrambi sappiamo l’uno dell’altro cose che gli altri – tutti gli altri - non sanno, le cose dei vent’anni.
LN: Resterei ai più giovani. La serie dei Quaderni di poesia italiana contemporanea è iniziata nel 1991, e ad oggi ha valorizzato più di sessanta giovani poeti. Prima di tutto una premessa: non sono molti i poeti che tentano di stabilire un ponte con i maestri e i giovani perché spesso ci si rintana nei rapporti più facili, che sono quelli con le persone del proprio mondo. Immagino che avrai avuto modo di incontrare molti giovani poeti: mi piacerebbe capire come riesci ad individuare le poesie che, anche immature, acerbe, hanno dentro di sé il seme di una scrittura che può crescere.
FB: La prima cosa che mi viene da dire, e me la stai facendo venire in mente tu adesso, è collegata al discorso di prima: avendo io avuto una maturazione molto lenta, ho avuto la necessità di avere continuamente interlocutori, di rimettermi in discussione, in gioco. Quando io inizio a curare i Quaderni all’inizio degli anni Novanta non ho ancora raggiunto la mia definitiva maturità poetica, sto iniziando a scrivere il Profilo del Rosa e dunque tutti quelli che ho messo nei primi Quaderni, hanno aiutato me a venir fuori come autore definitivamente. È stata una necessità vitale per me interloquire anche con i più giovani. Tu mi chiedi come si riconosca il talento… si fanno un sacco di errori di cui ci si pente, errori di inclusione, di esclusione, qualche volta però la si azzecca. Qualche altra volta si individua il talento e poi questo talento si manifesta anche o persino maggiormente in altri campi. Ho inserito Emanuele Trevi per esempio, come “poetino” giovane quindici anni fa, ed oggi è uno dei critici più accreditati; ho inserito Flavio Santi come poeta dialettale e oggi fa il romanziere in primis; ho inserito Aldo Nove come “poetino” giovane giovane e certamente oggi è più un narratore… però il talento di Aldo Nove mi sembra sia fuori discussione. Tutto sommato non è che mi dispiaccia avere individuato persone molto giovani, avere subodorato che lì ci stava del talento, essere stato ben impressionato dalla loro prima raccolta di poesia, averle pubblicate e poi scoprire che sono diventati saggisti, narratori o autori teatrali. Poi ci sono anche quelli che hanno fatto solo il poeta e sono diventati poeti importanti. E quelli cha magari sono rimasti più in ombra, ma non per questo sono meno validi. Solitamente non cerco la poetica già compiuta o già definita perché a volte, quando uno è molto giovane, può essere imprestata, quindi è più un carotaggio che si fa, e poi naturalmente si sbaglia.
LN: Circola la voce che la serie sia prossima a chiudere: è vero?
FB: Io non ho intenzione di chiudere perché vorrebbe dire morire… ti ho appena detto che voglio vivere a lungo! Adesso inizia il lavoro sul decimo Quaderno; negli ultimi Quaderni c’è un comitato di lettura fisso da me coordinato, formato dagli stessi editori Marco Zapparoli e Claudia Tarolo, Fabio Pusterla e Umberto Fiori. Poi ci sono altri ai quali chiediamo consulenze per una parte di dattiloscritti o per qualcuno in particolare. Questo team farà un briefing alla fine del decimo Quaderno e prenderemo le decisioni sul futuro, nel senso che il decimo ci sembra un numero abbastanza compiuto in sé e soprattutto finiamo col coprire vent’anni e allora ci si chiede che senso ha mettere i nomi di quelli che hanno avuto l’esordio vent’anni prima accanto ai nomi nuovi di oggi. Diventa un po’ grottesco.. ormai sono i padri di questi, anche perché il limite per la data di nascita continua a spostarsi: quando abbiamo cominciato era il 1955, adesso è il 1970. Anche questo mi sembra che di per sé presupponga una trasformazione. Detto ciò, che con questa formula il decimo sarà probabilmente l’ultimo, io intendo continuare, magari con una formula più fresca, più nuova. Dipende tutto se sarò al mondo, se avrò la salute, la voglia di fare, però penso di sì. Si tratterà di vedere se avrò ancora voglia di imparare, adesso ce l’ho ancora, continuo ad aver voglia di leggere, di studiare, di scrivere e quindi di conoscere cose nuove ed è ovvio che le cose nuove te lo possono insegnare le persone più giovani e, giocoforza, se tu vuoi rimanere nella contemporaneità quale modo migliore che curare dei Quaderni e venire a contatto con le loro scritture. Voglio continuare e mi auguro di poterlo fare magari anche per tutto il decennio prossimo…
LN: Vorrei focalizzare anche l’altro aspetto rilevante della tua figura poliedrica e cioè la traduzione. Hai fondato nel 1989 e da allora dirigi “Testo a fronte. Rivista semestrale di teoria e pratica della traduzione letteraria”, una tra le riviste più importanti in Europa sul fronte della traduzione. Vorrei sapere come sta la “traduttologia” oggi in Italia, quali sono, a tuo giudizio, i poeti stranieri più importanti, e quelli dei quali ancora non si sa molto ma sentiremo di certo parlare.
FB: All’interno della tua domanda c’è un termine sul quale vorrei focalizzare l’attenzione: “traduttologia”, perché questa parola non esisteva, esiste grazie a “Testo a fronte”. È un calco sul francese traductologie, in Francia circola dagli anni sessanta, dal manuale di Georges Mounin, Les Problèmes théoriques de la traduction, ma in Italia non c’è. Il termine “traduttologia” l’abbiamo importato noi, lo stiamo usando da un quindici anni e, cosa curiosa, il Ministero dell’Università e Ricerca Scientifica e Tecnologica al quale io appartengo non l’ha ancora accettato, tant’è vero che la materia che io insegno si chiama Teoria e Storia della Traduzione ed è un sottosettore di Letterature Comparate; mentre il più “vivacetto” Ministero per i Beni Culturali l’ha accettato: due anni fa mi ha chiesto, come fa sempre quando c’è una nuova scienza, di presentare un volume – tra l’altro ne sono usciti due: Traduttologia I e Traduttologia II [Edizioni del Poligrafico-Zecca dello Stato - Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2005], la storia della traduttologia. Prima della morte (mia) spero di vedere accettato da tutti il termine “traduttologia”. Il fatto non è solo nominalistico. Quando fondammo “Testo a fronte” ci si chiedeva se questa scienza dovessimo chiamarla “traduttologia” o “translatica”. Non era la prima volta che mi trovavo coinvolto in situazioni di questo genere perché da ragazzo avevo partecipato alla nascita della semiotica: Primo Convegno di Semiotica, Palazzo della Provincia di Milano, 1976, c’erano Eco, il vecchio Jakobson, Chomsky. Dicevo, non è nominalistica la questione; chi ci avversava e chi ci avversa oggi non è per una questione nominalistica, è sul dare dignità di scienza al discorso sulla traduzione, è quello che non vogliono, perché il predominio dei formalismi, in particolare strutturalistico-semiotici, per tutti gli anni Sessanta e Settanta, fece che per molti i discorsi teorici sulla traduzione fossero ascrivibili all’ambito della linguistica teorica tout-court, mentre il nostro impegno è sempre stato quello di aggiungere, coniugare istanze linguistico-teoriche con istanze di filosofia dell’estetica, quella che Kant chiamava la dottrina del gusto, nello specifico della traduzione letteraria. Qui è più sottile il discorso, è un discorso tosto, scientifico, sul quale però ho scritto dei libri: in Con il testo a fronte. Indagine sul tradurre e l’essere tradotti uscito l’anno scorso dall’editore Interlinea, cerco di dare i rudimenti di questo discorso, uscendo dalle dicotomie che sempre hanno caratterizzato il discorso sulla traduzione. La nostra proposta è quella di ancorare una riflessione teorica sul tradurre su cinque elementi che permettono la fuoriuscita da una impostazione dicotomica: il concetto di avantesto, di intertestualità, di ritmo, di poetica – che per me è fondamentale anche in questo campo – e il concetto di movimento del linguaggio nel tempo. Dicevo prima che il concetto di poetica è alla base di tutti e due i discorsi perché è il denominatore comune del mio agire; quando ho fondato “Testo a fronte” ho fatto quadrare il cerchio, nel senso che facevo da un lato il poeta, dall’altro il ricercatore universitario, e ho trovato un denominatore comune: la riflessione teorica che inglobasse comunque anche il concetto di poetica –ecco in che cosa sono anceschiano: l’idea di progetto e il discorso sulle poetiche, che da molti non è sentito…
LN: Perché non è sentito?
FB: Facevo riferimento al predominio dei formalismi negli anni Sessanta e Settanta, che ha coinciso con la Neoavanguardia nella ricerca poetica. Ora, è evidente che senza formalismi non ci sarebbe il Novecento, quindi nessuno si sogna di annullarne l’importanza, e senza avanguardia la poesia italiana non sarebbe quello che è; quindi nessuno si sogna di parlarne in termini riduttivi, tuttavia credo che ci siano alcuni ancora oggi, sia critici sia poeti, che ritengono che parlare di poetiche sia un tornare indietro; invece io credo che sia essenziale. Non riconoscere più il concetto di poetica è un grande impoverimento perché poi finisce, in molti casi, che la scrittura diventa uno scoppiettio linguistico, una grande patina composta solo di funambolismi linguistici. Il discorso delle poetiche invece, rifacendosi alla definizione di Anceschi, come riflessione che gli artisti e i poeti compiono sul loro fare, sul loro poiein, indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità e gli ideali, porta a delle conseguenze importanti anche per un poeta giovane di oggi. Sei tu artista che rifletti su quello che fai. Ecco, io sono uno che riflette su quello che fa, prima, durante e dopo. Anceschi dice artisti “e” poeti: vale anche per il pittore, per lo scultore… si deve indicare tutto il bagaglio strumentale, che per noi puà essere quelle tre o quattro lingue classiche e/o moderne che conosciamo, l’uso dei dizionari, i lessici di frequenza, le consapevolezze filologiche e etimologiche, le conoscenze metriche etc.; ma non basta perché con questo costruisci un versificatore; poi ci sono le moralità e gli ideali: Anceschi li mette al plurale, perché è evidente che possono mutare di persona in persona e di tempo in tempo, ma è fondamentale averle, avere delle cose per le quali si senta la spinta etica, proprio nella direzione che dicevo prima: stato di diritto contro stato etico, per esempio. Io aborro lo Stato etico perché sono un uomo fortemente etico che vede un’etica moderna solo all’interno di uno Stato di diritto. Solo uno Stato di diritto permette di mettere al plurale le moralità e gli ideali. Lo Stato Etico è conculcante perché ritiene di possedere la verità (magari persino con la maiuscola).
LN: Restiamo qui: nella nota conclusiva all’ultimo lavoro in versi, Noi e loro, riveli «il motivo che mi ha indotto ad essere tanto “fisico” in questo libro: riconquistare anche in letteratura al sesso omoerotico spazi che per il sesso etero sono consueti». Vorrei che ci spiegassi quanti e quali sono questi spazi, e se ci sono altri autori, altri poeti, non per forza solo in Italia, che stanno lavorando in quella direzione, della “riconquista” di questi spazi.
FB: Questo è un discorso che in Italia oggi va fatto. Io non è che avessi particolarmente voglia di farlo, lo confesso, però ne ho sentita l’urgenza, vedendo addirittura la regressione dell’Italia rispetto agli altri paesi europei. Avendo contatti ed essendo spesso in altri paesi europei, mi trovo a dover spiegare perché in Italia oggi uno è costretto a scrivere libri come Più luce, padre o Noi e loro, e mettere la propria poetica al servizio di questo tipo di istanze. Perché colleghi inglesi, olandesi, spagnoli, o tedeschi questi problemi se li sono risolti dieci, venti, trent’anni fa, vivono in società dove tutto questo non è più un’urgenza perché è un dato di fatto assolutamente scontato e dunque è chiaro che anche l’artista può occuparsi d’altro. L’Italia oggi mi preoccupa perché la vedo involversi da questo punto di vista; in sostanza posso riassumere il mio stato d’animo in questo modo: l’Italia vorrebbe la modernità a pezzetti, quindi internet sì / fecondazione assistita no; tv satellitare sì / RU 486 no; dichiarazione dei diritti dell’uomo sì / Org. Mondiale della Sanità no (perché altrimenti dovrebbero cadere tutte le discriminazioni contro gli omosessuali). E così via. E il paese è in declino. Si vogliono ripristinare più voli all’estero da Malpensa? Per permettere alle signore di Busto Arsizio di recarsi a Barcellona, Londra o persino Istanbul a procreare assistite? L’Italia si trova veramente a un bivio; chiaro che questa intervista accade in un momento dell’aprile del 2008 per cui abbiamo le elezioni politiche tra una settimana e si vive anche di interazione col contesto… io mi auguro che qualcosa si muova e se si muove si deve muovere tra i giovani, anche se non ho molta fiducia in loro come categoria perché conosco i loro padri… però a qualcosa bisogna pur attaccarsi, bisogna pur sperare. Io, finché avrò fiato, continuerò a dire e a scrivere queste cose e a dire che anche l’Italia deve diventare un paese moderno, d’altro canto siamo in Europa, quindi si tratta di adeguare le nostre normative a quelle europee; non è che sia così arduo il compito: basta copiare; certo che le resistenze sono molte e soprattutto si vedono dei connubi molto osceni: quando tu vedi i giovani di alleanza nazionale alleati ai giovani leghisti in un’ottica antimoderna, ti viene in mente – per esempio - che i cattolici, gli ebrei e i musulmani a Gerusalemme sono d’accordo su una sola cosa: impedire il Gay Pride. Sono queste oscene convergenze che ti danno la misura delle grettezze e delle ristrettezze mentali con le quali dobbiamo misurarci. Credo che il compito di un poeta onesto sia anche quello di sottolinearle; in Guerra ho cercato di fare un discorso sulla violenza, un discorso estremamente ampio ma che in fondo penso sia tuttora di attualità e in Noi e loro ho proprio mirato a dare fastidio, è un libro che crea degli imbarazzi, perché soprattutto dai poeti si vorrebbe il quieto vivere, si vorrebbe sempre la “cosina” che tranquillizza, invece quando usi la poesia come corpo contundente, come arma di disturbo, è evidente che a molte persone dai fastidio, ma questo mi stimola solo a continuare; anche in Roma ci saranno situazioni di questo genere. Per non dire di Reperto 74, il libro di racconti che ho appena pubblicato dall’editore Zona.
LN: Siamo arrivati quasi alla fine della nostra intervista. Da qualche tempo hai un sito, www.francobuffoni.it.
FB: Sai perché l’ho fatto? Perché ero stufo di tutta quella carta. È chiaro che quando hai solo la carta non puoi che basarti sulla carta ma – e qui torniamo al discorso del contatto con i giovani – a un certo punto se hai gli occhi aperti ti rendi conto che è molto meglio lo schermo, è molto meglio eliminare il più possibile la carta e quindi è stato un modo di dire “voglio vivere”, un modo di legarti al presente perché il futuro è fuori discussione che sia lì.
LN: Invece molti poeti della tua generazione si rifiutano di entrare in questa dimensione ed è un grande peccato perché è forse anche il modo di far avvicinare persone o di rendere accessibile immediatamente delle notizie e non solo, di dare simbolicamente l’idea, l’immagine di una persona che vuole aprirsi anche al contatto con i giovani…
FB: Ti ringrazio di leggerla in questo modo, in effetti devo dire che avevo avuto delle perplessità perché tra i miei “colleghi” questa cosa non è vista bene, non lo fanno, non lo vogliono, ma credo che dipenda da quello che dicevo prima: se tu vai a compartimenti stagni a un certo punto ti chiudi ed è evidente che non te ne frega niente; se invece tu vuoi interloquire, interagire, è evidente che non puoi sperare che il ragazzo di Aosta o di Lecce ti scriva una cartolina con l’indirizzo postale della nonna; ti mandano una e-mail e se tu hai un sito tutto questo diventa facilitato. Credo che il punto sia lì, dipende da come tu ti poni nel tuo tempo, se ti metti in discussione o no. Per me è stato un mettermi in discussione, lo vedo dalle e-mail che mi arrivano: ricevere delle critiche, delle richieste, ti stimola, ti mette sempre in una situazione di riflessione, mai di stasi.
LN: Hai avuto modo di visitare blog, siti di poesia, di letteratura, di riviste?
FB: Sì, compatibilmente con il tempo a disposizione lo faccio costantemente, soprattutto con le riviste straniere, con i blog stranieri, perché ti dà una dimensione in più; ad esempio sono molto interessato in questo periodo a ciò che sta succedendo nell’est europeo, perché ho visto quei paesi da giovane, quando erano delle galere a cielo aperto, con le persone prigioniere in queste nazioni dal gloriosissimo passato. Quindi è tale la mia gioia nel vederli liberi adesso che quando mi collego e vedo un ragazzo estone che fa un blog o un ragazzo della Boemia che mi parla in rete attraverso una rivista di poesia, per me è una gioia indicibile. Non credevo di poter vivere fino a vedere cadere il muro di Berlino; ero lì nel 1972 e me lo ricordo bene, me la ricordo bene la cortina di ferro, ricordo benissimo un mio giovane compagno di dottorato di Praga, sposato con un figlio, che non veniva lasciato uscire dal paese per andare in Inghilterra… Glielo permisero solo quando la moglie rimase incinta una seconda volta, per ricattarlo sul fatto che lui sarebbe dovuto comunque tornare indietro… erano delle cose da Inquisizione, e quando sento odore di Inquisizione, io reagisco sempre. La mia attenzione per l’est europeo oggi è di questo segno ed è proprio per questo che mi pongo sempre in termini molto polemici nei confronti di una concezione etica dello stato. E per essere chiaro fino in fondo, non penso che il problema siano i miei vicini di casa qui di Oltretevere: loro sono il riflesso di quello che è la società italiana, società culturalmente arretrata, bisognosa di sprovincializzarsi e di svecchiarsi (anche per quanto concerne molti “giovani”). Quando ciò avverrà questi di Oltretevere conteranno come San Marino.
(l’intervista è stata realizzata a Roma domenica 6 aprile 2008, a casa di Buffoni; è apparsa sul n. 110 di "Fucine Mute" - www.fucine.com - corredata da registrazione audio)
Marotta
Francesco Marotta
Forme del desiderio e della voce
Quello di Dome Bulfaro è un percorso di ricerca e di scrittura molto suggestivo, che trova nella sperimentazione formale (non solo poetica) il terreno più fertile per le sue intuizioni: una traccia fatta di sbocchi, di sussulti improvvisi, osservata da uno sguardo sempre in movimento che rovescia in visione l’esplorazione e la catalogazione dei frammenti del reale in cui si imbatte. La realtà, esplorata a partire dall’orizzonte enigmatico e freddo del frammento, si rivela, e si risolve, in una ricomposizione formale che, demolendo sintassi e pensiero in linee sghembe e frante, apre squarci di senso imprevedibili allo sguardo; uno sguardo che, indagando, si indaga, aggiunge nuove lettere all’alfabeto della visione che contiene. Il lavoro minuzioso sulla forma, scomposta e ricomposta in flussi significanti sempre diversi, e diversamente identificabili, risponde a una precisa intuizione di poetica (che fa della tensione all’oralità la sua ragion d’essere preminente e che, contemporaneamente, non può essere scissa, comunque, dall’opera pittorica dell’autore, che risponde allo stesso dettato unitario).
Tra “ossa” e “carne” si apre uno spazio incolmabile e insondabile di desiderio che stringe in un solo abbraccio la chirurgica e paleontologica osservazione scientifica di Benn col soffio vivificante e sorgivo della pupilla di Lucrezio.
Tra il nulla di nome (di tempo, di spazio) e l’immaginazione (la visione che crea, il flusso in cui il possibile s’incarna) si definisce il territorio di questa poesia dove “eros” e “epos” incrociano le proprie rotte, i propri destini e il proprio secolare rimosso. Parlo di un epos primitivo, dove l’elemento mitico e il dato concreto sono indistinguibili nella voce che li canta, in quanto il reale, come elemento da ricostruire (quasi ombra di un futuro già passato) si presenta in forme altamente metaforiche e simboliche, quasi a costituire una topica, una regione dell’inconscio dove la metamorfosi regna sovrana, a dispetto di un tempo immobile che guarda, impossibilitato a definire e a storicizzare le forme.
Nel regno dell’improbabile, che qui gioca tutto il suo ventaglio di possibili significati come categoria estetica preminente, echi di Bonnefoy e di Borges si mischiano in una miscela suggestiva e originale che annulla la distanza e il percorso tra “Ossa” e “Carne”, facendone un unicum privo di soluzioni di continuità, non fosse per le architetture formali, meno frastagliate e più distese, della seconda parte. La presenza di Douve, figura altamente simbolica, e, per ciò stesso, concretissima, fa da sfondo concettuale all’inventario di “ossa”, lasciando affiorare lembi pietrificati di desiderio in attesa di una mappa che ne provochi e ne indirizzi la ricrescita; e la mappa, borgesianamente, si presenta come la scrittura minuziosa di un labirinto di carne osservato nel profluvio inarrestabile delle forme, dei desideri, dei sogni che per un attimo si materializzano, perdendo qualsiasi identità di genere, in eterna tensione tra “mancanza” e “possesso”.
Artefice di mappe immaginali costruite dalla visione nei vuoti tra ossa e carne (indefinibili soglie di canto e di negazione di voce, contemporaneamente), il poeta semina lembi di universi claustrali o dischiusi che simulano, fino a renderlo tangibile, il calco originario, “ideale”, possibile, sempre in fieri, e per questo eterno, del mondo transeunte dove si consuma la nostra vicenda e i giorni assistono, impassibili, alla crescita della nostra morte. Nessuna ansia o deriva consolatoria: solo il naturale evolvere (lucrezianamente inteso) di un’escrescenza, una fioritura inattesa, sulla pelle del tutto, o del nulla. Lo spazio della poesia, dunque: tra un concreto smaterializzato, l’ante rem senza il quale il verso non ha ragione d’essere (“un poeta non vive che accanto alla / morte alle sue prossime morti e parti / vive al parto della prossima morte”), e una possibilità che, nel desiderio di essere ancora carne e voce, si definisce come volto e vita (“l’Io sia bacio alla sorgente, gocciolio monco di eco e goccia”).
Una poesia della visione che travalica tutti i possibili modelli di riferimento facendone lo sfondo di un’intuizione pittorica e immaginale del dettato poetico; una poesia che rifiuta gli orizzonti di ogni idealizzazione e si sostanzia nel senzatempo dei resti, dei frammenti d’ossa che, passati sotto una lenta che apparentemente sembra numerarli e ordinarli a caso, rivelano, intatte, le forme del desiderio di cui sono il simulacro, la cenere superstite da dare in pasto ai venti: e quel desiderio, desertico e desertificato, si rivela ancora potenza generatrice, tutta indirizzata alla ricomposizione, al rifiorire in nuove forme della carne che era.
“Ossa” e “carne”, allora, come simboli concreti della scrittura poetica che, leopardianamente, è potenza creatrice che riveste di forme il nulla: il nulla, il vuoto, il deserto e la morte, segni ineludibili della condizione di finitudine dell’essere, come la materia da cui segno e voce prendono respiro per esistere: e la vita, florescente di desiderio, che prorompe dalle sabbie con la sensualità dell’acqua di fonte al suo primo apparire.
*
Dome Bulfaro - Ossa e Carne
Da: Carne 32 contatti
(Alcuni testi compaiono in Carne 16 contatti, Napoli, Edizioni D’IF, 2007)
Da albero regredisco a forma, cerchio
otto morula braccialetto curva
a coniugare essi con io e io sono essi
sono l’umanità tornio per vasi
sanguigni, per ventitré dita visi
scuciti e ricuciti nel mio viso
conduci il cuore del tuo indice al primo
bacio col mio indice dai tuorlo e luce
alla caverna, allo scambio con l’embrione
col feto che si forma in un cucchiaio
d’acqua piega le sue dita a forchetta
e se sguscio maschio affilo la lama
e se sguscio femmina m’accoltello
al pube e ogni mese apro la ferita
imbratto lo stomaco di analgesici
torno alla scoperta del compimento
per riorbitare biglia stabilire
quale fra nasini becchi o proboscidi
è l’innesto naturale che sente
la mano: ceppo con rami recisi
da millenni e i polpastrelli: sezioni
in cui puoi contare tutte le vite
passate per incontrare te stesso
Se lasci eredità cariate al rientro
ritrovi in dote figli marci il puzzo
quando mi parli non puoi immaginare
quanto vento può nascere da un battito
quanto il dispetto snoccioli pazienza
nella bambina le smussi il sorriso
l’abbia resa ferri nelle caviglie
donnacapra con pelo e teste in fiamme
adolescente ribelle infilzata
tra le orecchie di suo padre: quel noioso
che si morde la coda con sbadigli
quel pavone che non stormisce
se il vento lo strattona: quando un uomo
parla tutto l’albero parla agisce
nel nome di ogni foglia unisce origini
nella punta dell’indice o separa
l’indice in due lame; quando un uomo
stabilisce un record mondiale o uccide
io mi sento in parte atleta e omicida
colpevole anch’io come gli altri di esserci
persi nel labirinto dell’impronta
di aver creduto che il corpo fosse una
prigione e non il bozzolo del cielo
Io non so nulla di poesia ascolto il polso con l’orecchio
e trascrivo sulla carta ciò che ogni rivolo mi detta
passo ore annodando asole nel vuoto brevi ricordi
che non vuoi dimenticare come quando nostra madre
ci insapona con le papere in una vasca di sangue
fraterno, o nel loro letto per contagiarci l’amore
So che un fratello può estendersi su me o riflettere
mediare fra noi come il legamento di radio e ulna
al punto che l’inciso nei palmi può rimarginare
ribaltarsi da supino a pugno riscoprire come
il taglio lama dei nostri polsi non porta alla fine
ma ci annega nel lavacro dello stesso barlume
Primi sassi d’allerta si sogna con una mano pistola sotto il cuscino
la discordia fa dell’uno un duello un cecchino un tonfo, attento
tu che rilanci per tre la scommessa di pittare una famiglia ideale
- non siete due Santi col Bambino - l’indice può rivelarsi una canna
col mirino e l’unghia rossa uno sparo se il pollice sgrilletta allora
l’avambraccio è imbottito di parolacce bicchieri rinculi che riducono
la vostra facciata un colabrodo: se il sangue scorre è sangue altrimenti
è l’ennesimo avambraccio che perde è di nuovo frutto maturo
che già ritorna fango. Attenta ai suoi baci d’amore indelebili sulla pelle
marchi per ammansire bestiame farne proprietà privata
baci qui e qui tatuati che a ogni conflitto mutano in piranha, attento
l’astuzia è una stoffa che si cuce nella carne viva
e la malizia un accappatoio allentato da una ragazza ladra
l’orgoglio è una divisa da parata e la gelosia una camicia di forza
la rabbia è un panciotto troppo stretto e l’Amore
è luce che intesse i vostri capelli o ne fa punte doppie
Questi solchi nelle carte degli avambracci
apron feritoie da cui spiare i morti e ai morti
fessure in cui spifferar misteri ditemi
perché s’impicca in cella e la sorella mangia
veleno, i morti vedono in noi un obitorio
in perenne allestimento, il macero del vento
A qualsiasi ora sveglio la folla disegno
muto la grata in versi a cui confesso uscite
dono la voce al nostro angelo seppellito
a chi vola esiliato, vedo i seppelliti
vederci orbi pararci dalla loro luce
esplosaci nelle sbracciate accartocciate
Se osservi il nostro bacio di lato non siamo più disegni opposti
il mio profilo è una linea che rinasce e continua nel tuo
il bacio è la chiave e lo spiraglio di ogni nostra serratura.
Quando un adolescente si fucila non metterti mai in mezzo
lui è il plotone lui il giustiziato lui dà l’ordine lui lo sparo
la tua immortalità ha denti di latte le tue ali sono clessidre.
Spara ucciditi e rinasci aquila con piume così mature
da abbracciare tutto lo splendore della vita umana e’ tempo
di saltare l’ultima volta il toro, giovane bianca o scuro,
la muscolatura ti catapulti fuori dalla vertigine
dalla presa di corna dal carpiato sulla schiena dai giorni
in cui del toro si saggia solo narici e fumo occhi e sfida.
Ribellarsi è, a questa età, una profilassi
alla carezza blasfema sul volto
che ami: l’anestesia a otto patricidi.
La scorza da cui nasci resta l’unica
foto della propria rivoluzione
di costume, l’ultimo tuo sarcofago.
Per questo i padri son sempre più giovani
dei propri figli e i figli fin dal parto
sono vecchi più dei padri e del tempo.
Metti il cuore dove io non l’ho, battiti/è questo il tango
col proprio sangue/padre e figlio, guancia a guancia, l’ultimo/
passo che m’insegni il primo mosso/ con chi mi è mamma!
O sei nerbo/ o vivi come un vile sciupafemmine
dici che uno danza il disegno che ha in corpo/ - lei o ha te
o la febbre/ tu hai lei e il profilo di mille sottane ebbre -
no, un padre che ha figlio moglie no, non si può permettere
di sparire uscire dai piedi blaterando in pancia
- figlio sei uomo quando non piangi quando metti il cuore
dove non l’hai! - con te è come danzare insieme ai guai
padre, uno è uomo semmai solo se è tango guancia a guancia
coi morti, se vivi e morti son tutti padri suoi.
Stupore che sa il peso di ombra e luce:
poeta, varco nel vuoto: cicatrice attesa;
crisalide col profilo di doglie;
squarcio di scintilla che scaraventi;
nel travaglio di teneri frontali;
scava la terra trova il primo filo;
di coppelle ed armi mirra ed artiglio;
sguardo a strapiombo prima dell’assolo;
piume al baratro; acuto al sole; o scolo
Trinità Madre del Latte, del Nettare e dell’Imperfezione
che insieme siamo ramo gemma dono, nutri e foggi altri pani
d’argilla, togli e aggiungi sangue all’impasto, cuoci nel ventre
l’informe che in te torna, entra esce dall’uscio di casa per dare
sembianza al nulla, al pensiero e al mondo che ci pongono
di fronte.
Madre che mi assegni al grembo delle prime acrobazie:
un padre una
Famiglia; mi riveli che tutti gli uomini sono emorragie
nascono al tramonto e poi - è tutto un sopravvivere nella notte -
mentre spetta a noi dipingere le stelle, soli, rinnegare
che in questa mia poltiglia c’è Vita e indigesta Morte di fronte:
la schivo, chino la testa, penso non sparecchio, mi ribalto
ma con l’orizzonte mai dritto negli occhi: di fronte; diverto
mi discosto, pirlo, mi rivolto affermo che non ti conosco
ma con l’orizzonte mai negli occhi: di fronte; all’orizzonte
ci sei tu Madre, io che già mi sento pietra, al tuo volto: bifronte
Ora sai perché i nostri occhi a contatto piangono
pietre, perché il cielo resta imbottigliato in fronte
sai quanti ricatti ci sono nel mio esserti fedele
sai che due uguali a contatto s’irritano
ora sai perché trabocchiamo di luce che non si può bere.
Ora so perché il tuo bacio m’impregna
e spreme la mia carne in fiumi d’inchiostro
perché la brezza ti trapassa
e la foglia finché la guardi mai tocca terra
ora so perché le nuvole s’impigliano nel tuo ritratto
e ogni tuo gesto è l’ultimo nervo genealogico
frutto di sguardo che fiorisce al suo sfiorire
ora so quando vuoi dell’acqua uscire o annegare
d’amore perché ci strappiamo gli occhi pensiamo ora so
perché tutti i giorni ci vediamo e mai ci si guada si stona
da morire ora lo sappiamo che siamo tre occhi: i tuoi
i miei quelli della fine, che siamo puri, puri davvero, solo quando
ci appendiamo tutti interi ai muri, come quadri viviamo
con la pittura lavabile che ci copre sino agli orbicolari,
sappiamo quanto sia inutile lacrimare: tutto sbianca con una mano
di spugna, due colpi di stucco, la fine che ci resta a guardare
Padre! hai un sorriso quasi fossile!
non sai che sorridere rende uomo!
non sai che da generazioni tu padre ritagli le tue labbra!
e credendo questo patto ti salvi
le cuci sopra le gengive di me figlio!
non calcoli che se questo figlio ti rimpiazza come scapolo
si può innamorare di una ragazza che sopra i denti
stringe quello stesso fiore ereditato da suo padre
e che voi due papà, pur senza conoscervi, tutte le notti vi baciate
sgusciate lingue come lumache nella cavità dell’altro
montando papille e saliva in fragole e panna!
Padre non calcoli quanti umani si assaggiano quando baci la mamma!
Quanta fiducia riponi nei suoi trentasei denti carnivori! Quanto
vampirismo dipendenza e carotide c’è nell’affermazione: ti aamo?!
con la bocca storpia, cucita ai novembre di pioggia
questi tuoi ti aamo da sanatorio il baciarti lazzaretto
quanti morti bianche sul ciglio delle labbra
quante rose bianche nella verità delle nostre labbra
insegnami ad abbracciare il cuore padre, il senso dello stare sotto
insegnami qual è la grandezza del labbro inferiore, il dolore, lo sbocco
È da quando sono donna che dissanguo gli anni
batto la strada gli lavo i piedi coi capelli
e con spilli non più sotto il tacco ma come una farfalla
dispiego le ali e il dorso s’una bacheca di rovi t’accolgo
crocifissa per dirti quanto misura un battito materno
quanto una madre spiri di crepacuore per qualunque figlio
quanto essere madre sia condanna madida d’eterno
Sulle punte quasi stessi rincasando
tardi, danzo a un soffio da cielo e terra
per non esistere almeno una frazione
in forma di uomo o donna ma come sono
sulle punte quasi stessi rincasando
tardi, danzo a un soffio da cielo e terra
per non esistere almeno una frazione
in forma di uomo o donna ma come sono
sulle punte quasi stessi rincasando
tardi, danzo a un soffio da cielo e terra
per non esistere almeno una frazione
in forma di uomo o donna ma come sono
sulle punte quasi stessi rincasando
tardi, danzo a un soffio da cielo e terra
per non esistere almeno una frazione
in forma di uomo o donna ma come sono
…
La tua gioia è la mia agopuntura, simula
lo stesso numero di scarpe, piedi giunti che rendono l’increspatura
di non essere il passo che sono, meno duro e lento allo sprofondare.
Ci copiamo non capiamo chi è sole o riflesso pare bello annegare
mi sento mare che abbraccia mare specchio d’universo solo quando
ti asciugo le lacrime col mio pane
Così delicato che l’impronta nemmeno spunti
uomo, c’è sempre un tallone che sbuca dal forcipe
sogni come un astronauta e pisci come un aborigeno
sapessi vibrare tatto al pensiero del calcagno
infilarlo tra le forcine del tronco più retto
troppi cuori cantano a testa in giù, si gonfiano di ombre
denti in fuori mento in dentro ara l’etere
uomo, vanga il fuoco che soffia in corpo
trasparenze - ungi il fianco nel cristallo -
non è questa la nudità che insegui?
non senti i piedi contusi smembrarsi
fino a liquefare i passi in profumo
così emaciato da infrangersi ovunque?
Come deglutire tutto il mare, farne il mucchio
che sono? Come stipare ogni voce nella punta
della matita? Come raggrumare giostre
corsie ospedaliere, nello stesso tallone
accomodare te e il padre del tuo cognome? Cantare
questo è il solo sangue che il poeta può donare
consonante dopo vocale, dissanguarsi nel tovagliolo
del bar scrivere - le poesie sono di chi se le beve -
le poesie t’affacciano nel precipizio della pulsazione
per questo canto perché nella gola nessuno del coro
mai s’estingua perché quando canto m’illudo d’incarnare
l’unica lingua canto perché io non danzi con un moribondo
tuono, canto perché quando canto solo canto sono
Truccarmi per carpire i tratti nascosti di mia madre
quello che una madre non può dire ai figli e svela ai fiori
mentre l’innaffia capire se il tuo amore è ambidestro
o quando ci prendi c’è fra noi un gemello prediletto
Voglio versare nel cuore tutta la calma dei fogli
depennare dalla faccia tutti quelli che si specchiano
nel mio volto, non avere mille occhi dietro la barba
per una volta essere lo sguardo in cui mi riconosco
Nelle carni ho corpi contro corpi che premono come crampi
contratture mai riassorbite completamente: ruoli assunti:
non più nome, non un cognome che volontà o buoi porti,
fossimo sguardo che ci guarda silenzio che si parla.
Sapessi rispondere sì alla domanda: - È questa la morte? -
è una musica di pianoforte giunta alle ultime paure
Dome non preoccuparti dello spartito i tasti le luci, basta,
abbassa le palpebre; nuota senza braccioli; senza mare
Poi mi stacchi dal cielo adagi ciglia
con le nocche penzolanti sui denti
riposo in braccio al bacio di mia madre
che mi culla su fette di pane apri
la bocca e m’inghiotti nel seno mai
mi vedi per così: coi bulbi senza
tuorlo mentre trascinano il mio sguardo
che la fissa incurante delle buche
e del suo strazio che m’inzuppa il viso.
Inarchi gravidanze nella zanna
fuori dal grembo intagli urla neonate
e ora come un ponte con le costole
fratturate la inghiotto nel mio torace
privo di polmoni con le sue urla
ancora vive soffocate a mucchi
ora ti comprendo! ci rinfacciamo
schiena contro schiena il mio schianto al suo
schiena nella schiena il mio spiro il tuo
E mi chiedi come distinguo la fine
non all’ultima poesia o al punto o a capo
la fine d’un libro si mostra quando
la schiena all’orizzonte schiuma, mai
mi trovo all’altezza quando bussi entri
nella carne mi dici che sei morto
su due piedi dai la schiena sprofondi
sordo esci di scena da me vorresti
sorrisi invece piango più per me
che per te - dei topi ho ancora paura -
resta! le mie chele ficcate in gola
resta! il mento che ti affonda la schiena
- così ci si uccide due volte - ad ogni
costo trattenersi non accettare
che la tua vita non sia mia, né sia
mia la mia, nella fine nessun bene
viene sottratto ma in terra rinasce
un seme, tu io dormienti tra due schiene
Una madre storta sul canarino
è vasta più d’un matrimonio un dio
la sua mano è gradina che percorre
la nuca e sbozza nel cranio carezze
scoprendo fra i capelli angoli, urgenze
rattrappite - craniate nel buio ragli
quel folle brancolare nell’abbaglio
che urta statua e scultore nella scaglia -
la madre sul bambino… quel non più
loro parlarsi per fosse comuni
La fronte di mio padre è lunga otto ore
non ha capelli intorno ma irte donne
a lutto, fra gli occhi ha un cestino dove
porre baci impacchettati da troppi anni.
La fronte di mio padre è pianura al sole
ma nel resto è come noi: non finito
scabro dolore, per questo ti prego
ora padre lascia che tuo padre sia io
la mano sotto la nuca la mia
sia, padre morto, tu bambino mio
Con il capo perno al centro del cosmo
e i piedi pedalanti all’inseguimento del vuoto
la tua immaginazione per ennesima o radice
mi battezza Messia prima e giuda poi.
Ora zoppichi e vaneggi revolverate a Dio
fai ciao mostrando buchi e disprezzo per scuffia e dulia
te ne vai per gli unguenti della città col mio bacio
per sempre cucito alle labbra e i tuoi inceppati in gola.
Sei l’incendio e il rammendo
ora che la nostra anima è divenuta lino
la sindone vivente che formiamo non ci avvolge
in crocifissi né capestri non riscopre volto
a omicidio o suicidio ma semplicemente il corpo
di un risorgere naturale le cui macchie, verdi
come l’erba e le foglie, restituiscono
un bassorilievo di ricordi somigliante e misterioso
Di sette cieli vuoi salire l’ottavo, l’ignoto
fino all’ultimo metro speri il salto dalla torre
s’impenni, o un palmo ci afferri non sopporti l’equilibrio
asimmetrico figuriamoci il peso di uno specchio
o l’idea che l’incastro esatto non sia di macchie
la nostra bellezza semmai sta nello sposare sfide
già perse giurarsi eterno amore questa la folle
bruciatura che ci marchia umani davvero.
Il deserto fra noi ci screpola sgretola il mondo
il deserto è l’abito che ci cuce insieme, sei
la parte migliore di me quindi non merda o sputo
mestruo piscio o sudore nulla è rifiuto se viene
da te, se il nostro bacio è l’elica di ogni fuoco,
siamo fiamma che ripara tra due dita d’enigma
Cristi privi di scopo, l’infinito punto a capo
nel bregma, quel vuoto ignoto prima di essere dopo
Da: Ossa 16 reperti
(in Settimo quaderno di poesia contemporanea, Marcos Y Marcos, Milano 2001)
Tu che ladruncola piangi quando il mio spiro si disfa in canto tu che nel manto
del bianco lutto ti improvvisi Maddalena e Madonna di Giotto
tu che con una rosa lacrima d’aceto misuri a lato il mio
e il tuo viso, curi il digiuno di cielo e terra, disponi che il nostro riposo
abbia il gomito disteso e piegato in frequenze radio allineate
per comporre astratto sorriso con lo spartito agli angeli rubato
Coi battiti ti telegrafo: più di tutti amanti e amati
tu tatuato io prostituta spiriti da Lui traditi
In noi, s’impernia Galla Placidia, mosaico
di cellule staccate dall’arcobaleno
in noi, s’infuria Giovanna d’Arco, alla testa
di giuste, schierate ed apocalittiche, arse
vive per le stregonerie dei loro boia
in noi, il tempo ha succhiato il midollo del mondo
per farne il geniale pozzo di San Patrizio
in noi, ruota la scala della sapienza infinita, poggia
la colonna: serpente a sonagli affamata di popoli
antichi e moderni ingoiati come patatine ed hamburger
in noi, i ruderi di coda rizza, ci ammoniscono, sotto
rimembrano l’origine animale dell’umana natura
l’istinto quadrupede di sopravvivenza, di lotta
in noi, la posizione retta è coscienza, abbiamo ricorsi
di capobranco, di capostipite, di prevaricazione
di faraone che si mantella del sole, di graffi e amore
in noi, l’amore si alimenta nell’eterna follia, il pathos
l’elettricità che grida nel nostro vertebrato cavo
può illuminare città rase, far del cupo Las Vegas
in voi, domandatevi se per lui infilzereste il vostro cuore
come spiedino, per lei intingereste la lingua nel veleno
in voi, domandatevi se sareste disposti all’adulterio
pur sapendo che quel Malatesta già vi prende le misure
domandatevi se del vostro filmato siete attori autori!
ecco, ora posso sentirti superiore, sacro, or che scalzo fin le ossa
francescano, posso anche non manifestare la tua potenza
posso essere cibo e commensale dell’ultima cena
posso anche non essere di un sesso od esemplare
posso dare all’altro quel ch’è serbato a me
ecco, cosa è realtà cosa sogno
cosa è la spina dell’essere
che dolce s’incunea
nel non dire
Sommo macrorganismo dall’età sterminata
composto da bipedi in corsa dalle falcate contate
ti accorgi della nostra presenza quanto noi
delle cellule che a ritmo frenetico e impercettibile
si tramandano storie e canzoni primordiali
così narrano e cantano in me le ossa di tutti gli uomini
come in lei le stelle di tutte le donne. Certo
forse mai ci addentreremo forse seno e vagina sono
punti di partenza troppo distanti dal pene
ma virilismo di secoli e femminismo di anni sono
passato, i due d’oro giocattoli per la prole
qui ed ora come mai possiamo condividerli alla pari
pari possibilità di crescere esploratori insieme
donnauomo enigmi diversi dell’infinito essere umano
Da un fiore d’elio, invece di una stella, tu rinasci bagliore non trattenuto
dal buco nero di tua madre, sei creta a mia insaputa con me ti formi sui torni
sentiamo attratti i caldi piedi di moneta e calamita a nostra insaputa prima
noi figure nere inceramicate poi avvicinate all’aurora: sei futura, sei spugna
sei viso, sei labbra, sei fico, sei oculare, sei pupilla, sei tunnel, sei brace, sei fachira
sei nervo, mio cervello, mia memoria, sono io l’inchino al cospetto della luce che ispira
i tuoi pensieri, sono io il sacerdote, il Pitagora, che allunga la lingua, la tempera
segna numeri di bava sul tuo corpo d’altare con passo di lumachina te lo china
di preghiere affinché il tuo spirito affiori da tutti i pori, traspiri e m’inondi
con quella serenità che solo in fin di vita bevo travasa in altro imbuto
***
Dome Bulfaro (Bordighera 1971) è poeta e artista.
Come poeta ha pubblicato la silloge Ossa. 16 reperti nel VII Quaderno di Poesia Contemporanea (Marcos y Marcos, 2001), a cura di Franco Buffoni, con nota introduttiva di Fabio Pusterla, e la plaquette “Prove di contatto” (Coen Tanugi Editore, 2006) a cura di Rosachiara Terenghi e Valentino Ronchi. Suoi testi e interventi sono presenti in numerose riviste di settore tra cui La Mosca di Milano, La Clessidra, Le voci della Luna, e in Wok n°1 rivista della civica Galleria d’Arte Moderna di Gallarate in cui ha pubblicato la silloge Versi a Morsi.
È presente nell’antologia “Subway 2004-2006. Poeti italiani underground” a cura di Davide Rondoni (prefazioni dello stesso Rondoni e di Milo De Angelis) ed è stato incluso tra gli autori/performer nati dopo il 1970 nell’antologia, prossima all’uscita, Il volo del calabrone, a cura de Gli Ammutinati di Trieste (nota introduttiva di Aldo Nove e postfazione di Gabriele Frasca).
Sulla rivista americana Interim è stata pubblicata la traduzione in inglese di Ossa. 16 reperti a cura del poeta Christopher Arigo.
È uscito di recente Carne. 16 contatti (D’IF di Napoli, marzo 2007) vincitore del Premio di Letteratura intitolato a Giancarlo Mazzacurati e a Vittorio Russo
Ideatore di numerosi eventi poetico-artistici di grande riscontro, ad oggi, è direttore artistico della stagione poetica Poesiapresente per il Comune di Monza, città in cui vive.
Come artista le sue ultime personali sono avvenute alla Galleria Vanna Casati di Bergamo (galleria con la quale ha partecipato a Miart 2007) e a Milano presso Spaziostudio di Patrizia Gioia. Il suo lavoro artistico è sostenuto dal 1999 dalla Galleria Dieci.Due!
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7 Responses to “Ossa e Carne - Dome BULFARO”
1. wordinprogress Says:
Ottobre 16th, 2007 at 11:55 am
scorgo una certa lacerante lacerazione in questo poetare, uno spaccato frontale l’Amore “luce che intesse i vostri capelli o ne fa punte doppie” quasi una morbosa ostinazione e godimento nel tormentare la carne le parole di tagli innesti affinché si biforchino come i sentieri che si biforcano (direi borghesiani se si può dire) per poi ricucire le mille trame di un volto che una mano un’impronta disegna altrettanto morbosamente “come il legamento di radio e ulna/al punto che l’inciso nei palmi può rimarginare” e poi per quel che mi riguarda e per quanto può avere importanza scopro con simpatia una certa simbiosi con l’autore (spero che non si offenda), con le intenzioni, voglio dire forse dell’autore (ma solo in quelle, ammesso che l’intuizione c’azzecca qualcosa, visto che sono carente di ogni sensibilità artistica genitrice), intenzioni suggeritemi, ma può anche essere che mi sbagli, dai titoli delle sue pubblicazioni Ossa e Carne (anch’io, e mi perdonerete spero quest’altra auotreferenzialità, motivo per il quale ho aperto quest’altra parentesi, anch’io avrei voluto pubblicare, come un po’ tutti gli esordineti, un primo libro di ossicini, poi è passata, quella specie di sbornia, per fortuna che le vie di pubblicazione sono transennate alle ingenue imbecillità le mie per prime, ma quando non lo sono sembrano davvero delle fosse comuni, ci sono anche quelle, ci sono sempre state, mi scuso), insomma mi pare che il progetto comprenda tra le altre cose: una struttura prima, una forza conseguente, “l’elettricità che grida nel nostro vertebrato cavo” e infine una genesi, ma al contrario, speculare per quanto ci è possibile concepirne un’idea, una creatura che voglia leggerci così come si fa più o meno con un libro, posando la nuca di padre o costa, per quel che concerne il libro, sulle linee della propria mano. sì, con un po’ di fantasia. “La fronte di mio padre è lunga otto ore…”
grazie.
2. vocativo Says:
Ottobre 16th, 2007 at 2:56 pm
Con Bulfaro leggi e ti sembra di sentire le parole sotto ai denti e sotto al palmo delle mani.
3. Alessandro Ansuini Says:
Ottobre 16th, 2007 at 6:57 pm
Ho avuto modo di leggere la raccolta in questione, trovandola davvero eccellente, molto “corporale”. E trovo che ascoltate per voce dell’autore, molto bravo a mio modo di vedere in questo, le poesie assumano un’ulteriore sfumatuara, o intonazione.
A
4. francesco sasso Says:
Ottobre 16th, 2007 at 7:09 pm
caro Francesco, da due mesi ti leggo in silenzio.
questo tuo spazio web è unico. A mio parere, ad oggi, sei redattore della migliore rivista dedicata alla poesia.
Adesso mi leggo queste poesie offline.
(non conosco l’autore)
f.s.
5. francescomarotta Says:
Ottobre 16th, 2007 at 9:35 pm
Marco, i tuoi commenti lasciano sempre il segno. Sono felice dei tuoi passaggi.
Luigi, credo sia una caratteristica delle scritture che lasciano il segno: qui è bello profondo.
Alessandro, sono perfettamente d’accordo con te, anche sugli aggettivi che usi.
Francesco, i tuoi complimenti fanno sicuramente molto piacere: non quanto il saperti tra i lettori di queste pagine, cosa che mi onora davvero.
Un grazie a tutti voi, scusandomi per la latitanza.
fm
6. vocativo Says:
Ottobre 18th, 2007 at 11:14 am
Ah, Francesco, mi dimenticavo di dirti che l’immagine dell’arte rupestre sta alla poesia di Bulfaro come, più prosaicamente, il cacio sui maccheroni!
7. francescomarotta Says:
Ottobre 18th, 2007 at 3:02 pm
L’abbinamento tra le immagini e i testi è molto ricercato e curato, mai casuale. Almeno dal mio punto di vista e nelle mie intenzioni. La validità del risultato, poi, beh, quella sta a voi deciderla e declinarla.
Ciao, grazie.
fm
Passannanti
Erminia Passannanti
Un nota su OSSACARNE, di DOME BULFARO
martedì, 25 aprile 2006
Dali-The Great MasturbatorVi avvale della peculiarità di citare molti extratesti pittorici, questa sequenza incalzante, affascinante, seduttiva, radicale di Dome Bulfaro, dal titolo “Ossacarne” (2001): e mi verrebbe da pensare al Salvador Dalì de Il grande masturbatore (1929), un realismo limpido, tuttavia intriso di irrealtà (“Di quel sogno degli amanti“), dettagli onirici e perfino deformazioni allucinatorie.
Ci si trova un’ampia illustrazione del rapporto amoroso, delle sue strutture ossessive, dei suoi motivi e delle sue metafore, con forti implicazioni sessuali e riferimenti a simboli fallici, o meglio, alla fellatio, al tema della penetrazione/erezione, dell’orgasmo e dell’eiaculazione come estrinsecazione vitale artisticamente valida.
E ci si trova anche il motivo dell’ispezione psicologica del profondo, ovvero l’ambizione di possedere l’altro interamente, tipica della fase iniziale della brama di possesso, che si innesca tra amanti, la quale riproduce l’atto sessuale nudo e crudo del creare (“come ruspa ci scaviamo”) e anche il tema, corrente, del transgenderismo (“l’intreccio a te mi avvita”), che appunto trova un modo di superare la diversità, per un travolgimento della paura e dell’avversione del diverso, della vulva per il maschio e viceversa, freudianamente, del fallo per la donna.
Il tutto ricondotto al vissuto sentimentale e all’immaginario infantile di chi scrive, che nell’atto di reciproca penetrazione trova rifugio dalla dipendenza dall’onanismo, ovvero dall’autocompiacimento, dall’autoreferenzialità dello scrivere versi, a cui tutto – immagine, parola, amore, orgasmo – riconduce.
Immagini anche dell’ "archeologia della memoria” sessuale, ovvero mitica, dell’amore erotico e sentimentale allo stato originario. Dunque, sogno di ricongiunzione con la terra, con il senso, attraverso la sessualità, addensata di minacce e paure di impotenza, castrazione, e masturbazione. Vi sono, come nel realismo magico, innesti logici su automatismi secondo il sistema associativo del ritratto autoriale, posto su basi freudiane di Eros e Thanatos.
Il poeta si rivela caso clinico di fantasie sessuali feticistiche, di crudeltà e insieme di assimilazione di sé nel sesso antagonista, che poi diventa il proprio perché passato attraverso il vaglio di una infanzia-trauma in cui i sessi, della madre e del bambino, si castrano l’un l’altro.
La riconciliazione è una illusione. La donna è una sorta di enorme mantide che si metamorfizza in vagina che stringe, strangola (“quella tua materia amata / Cinghia”). I reperti sono schegge di ossa, ripescate dalla terra, ma anche da una esplosione interiore, ossa craniche. Tutto è spinto oltre il limite dell’amore dentro le viscere profonde dell’autossessione, della paranoia, dell’autocompassione (“piango più per me / che per te”) .
Per questa enfasi martellante sul grembo, sul parto, sulla figliolanza, sulla mattanza sessuale, sull’incesto, sull’antropologia culturale dei riti riconvocati e insieme negati della nascita, del matrimonio e della morte, questo testo teoricamente denso è una dichiarazione di poetica in stile citazionista "un poeta non vive che accanto alla morte alle sue prossime morti e parti vive al parto della prossima morte" che partendo dai classici, da Medea a Edipo, attraverso Sade, giunge all’estetica dei Goths, all’espressionismo, con i suoi discorsi sull’estetica della morte come esperienza estrema dell’evento nascita; e penso a Marcel Duchamp e alle avanguardie storiche, a Proust, ad Heidegger dell’”essere per la morte”, al consumo della carne che fa il dono della morte.
Poesiaspirito
Forme del desiderio e della voce
Quello di Dome Bulfaro è un percorso di ricerca e di scrittura molto suggestivo, che trova nella sperimentazione formale (non solo poetica) il terreno più fertile per le sue intuizioni: una traccia fatta di sbocchi, di sussulti improvvisi, osservata da uno sguardo sempre in movimento che rovescia in visione l’esplorazione e la catalogazione dei frammenti del reale in cui si imbatte. La realtà, esplorata a partire dall’orizzonte enigmatico e freddo del frammento, si rivela, e si risolve, in una ricomposizione formale che, demolendo sintassi e pensiero in linee sghembe e frante, apre squarci di senso imprevedibili allo sguardo; uno sguardo che, indagando, si indaga, aggiunge nuove lettere all’alfabeto della visione che contiene. Il lavoro minuzioso sulla forma, scomposta e ricomposta in flussi significanti sempre diversi, e diversamente identificabili, risponde a una precisa intuizione di poetica (che fa della tensione all’oralità la sua ragion d’essere preminente e che, contemporaneamente, non può essere scissa, comunque, dall’opera pittorica dell’autore, che risponde allo stesso dettato unitario).
Tra “ossa” e “carne” si apre uno spazio incolmabile e insondabile di desiderio che stringe in un solo abbraccio la chirurgica e paleontologica osservazione scientifica di Benn col soffio vivificante e sorgivo della pupilla di Lucrezio.
Tra il nulla di nome (di tempo, di spazio) e l’immaginazione (la visione che crea, il flusso in cui il possibile s’incarna) si definisce il territorio di questa poesia dove “eros” e “epos” incrociano le proprie rotte, i propri destini e il proprio secolare rimosso. Parlo di un epos primitivo, dove l’elemento mitico e il dato concreto sono indistinguibili nella voce che li canta, in quanto il reale, come elemento da ricostruire (quasi ombra di un futuro già passato) si presenta in forme altamente metaforiche e simboliche, quasi a costituire una topica, una regione dell’inconscio dove la metamorfosi regna sovrana, a dispetto di un tempo immobile che guarda, impossibilitato a definire e a storicizzare le forme.
Nel regno dell’improbabile, che qui gioca tutto il suo ventaglio di possibili significati come categoria estetica preminente, echi di Bonnefoy e di Borges si mischiano in una miscela suggestiva e originale che annulla la distanza e il percorso tra “Ossa” e “Carne”, facendone un unicum privo di soluzioni di continuità, non fosse per le architetture formali, meno frastagliate e più distese, della seconda parte. La presenza di Douve, figura altamente simbolica, e, per ciò stesso, concretissima, fa da sfondo concettuale all’inventario di “ossa”, lasciando affiorare lembi pietrificati di desiderio in attesa di una mappa che ne provochi e ne indirizzi la ricrescita; e la mappa, borgesianamente, si presenta come la scrittura minuziosa di un labirinto di carne osservato nel profluvio inarrestabile delle forme, dei desideri, dei sogni che per un attimo si materializzano, perdendo qualsiasi identità di genere, in eterna tensione tra “mancanza” e “possesso”.
Artefice di mappe immaginali costruite dalla visione nei vuoti tra ossa e carne (indefinibili soglie di canto e di negazione di voce, contemporaneamente), il poeta semina lembi di universi claustrali o dischiusi che simulano, fino a renderlo tangibile, il calco originario, “ideale”, possibile, sempre in fieri, e per questo eterno, del mondo transeunte dove si consuma la nostra vicenda e i giorni assistono, impassibili, alla crescita della nostra morte. Nessuna ansia o deriva consolatoria: solo il naturale evolvere (lucrezianamente inteso) di un’escrescenza, una fioritura inattesa, sulla pelle del tutto, o del nulla. Lo spazio della poesia, dunque: tra un concreto smaterializzato, l’ante rem senza il quale il verso non ha ragione d’essere (“un poeta non vive che accanto alla / morte alle sue prossime morti e parti / vive al parto della prossima morte”), e una possibilità che, nel desiderio di essere ancora carne e voce, si definisce come volto e vita (“l’Io sia bacio alla sorgente, gocciolio monco di eco e goccia”).
Una poesia della visione che travalica tutti i possibili modelli di riferimento facendone lo sfondo di un’intuizione pittorica e immaginale del dettato poetico; una poesia che rifiuta gli orizzonti di ogni idealizzazione e si sostanzia nel senzatempo dei resti, dei frammenti d’ossa che, passati sotto una lenta che apparentemente sembra numerarli e ordinarli a caso, rivelano, intatte, le forme del desiderio di cui sono il simulacro, la cenere superstite da dare in pasto ai venti: e quel desiderio, desertico e desertificato, si rivela ancora potenza generatrice, tutta indirizzata alla ricomposizione, al rifiorire in nuove forme della carne che era.
“Ossa” e “carne”, allora, come simboli concreti della scrittura poetica che, leopardianamente, è potenza creatrice che riveste di forme il nulla: il nulla, il vuoto, il deserto e la morte, segni ineludibili della condizione di finitudine dell’essere, come la materia da cui segno e voce prendono respiro per esistere: e la vita, florescente di desiderio, che prorompe dalle sabbie con la sensualità dell’acqua di fonte al suo primo apparire.
Testi
Dome Bulfaro, Ossa e Carne (Da: Carne 32 contatti)
(Alcuni testi compaiono in Carne 16 contatti, Napoli, Edizioni D’IF, 2007
Da albero regredisco a forma, cerchio
otto morula braccialetto curva
a coniugare essi con io e io sono essi
sono l’umanità tornio per vasi
sanguigni, per ventitré dita visi
scuciti e ricuciti nel mio viso
conduci il cuore del tuo indice al primo
bacio col mio indice dai tuorlo e luce
alla caverna, allo scambio con l’embrione
col feto che si forma in un cucchiaio
d’acqua piega le sue dita a forchetta
e se sguscio maschio affilo la lama
e se sguscio femmina m’accoltello
al pube e ogni mese apro la ferita
imbratto lo stomaco di analgesici
torno alla scoperta del compimento
per riorbitare biglia stabilire
quale fra nasini becchi o proboscidi
è l’innesto naturale che sente
la mano: ceppo con rami recisi
da millenni e i polpastrelli: sezioni
in cui puoi contare tutte le vite
passate per incontrare te stesso
Se lasci eredità cariate al rientro
ritrovi in dote figli marci il puzzo
quando mi parli non puoi immaginare
quanto vento può nascere da un battito
quanto il dispetto snoccioli pazienza
nella bambina le smussi il sorriso
l’abbia resa ferri nelle caviglie
donnacapra con pelo e teste in fiamme
adolescente ribelle infilzata
tra le orecchie di suo padre: quel noioso
che si morde la coda con sbadigli
quel pavone che non stormisce
se il vento lo strattona: quando un uomo
parla tutto l’albero parla agisce
nel nome di ogni foglia unisce origini
nella punta dell’indice o separa
l’indice in due lame; quando un uomo
stabilisce un record mondiale o uccide
io mi sento in parte atleta e omicida
colpevole anch’io come gli altri di esserci
persi nel labirinto dell’impronta
di aver creduto che il corpo fosse una
prigione e non il bozzolo del cielo
Io non so nulla di poesia ascolto il polso con l’orecchio
e trascrivo sulla carta ciò che ogni rivolo mi detta
passo ore annodando asole nel vuoto brevi ricordi
che non vuoi dimenticare come quando nostra madre
ci insapona con le papere in una vasca di sangue
fraterno, o nel loro letto per contagiarci l’amore
So che un fratello può estendersi su me o riflettere
mediare fra noi come il legamento di radio e ulna
al punto che l’inciso nei palmi può rimarginare
ribaltarsi da supino a pugno riscoprire come
il taglio lama dei nostri polsi non porta alla fine
ma ci annega nel lavacro dello stesso barlume
Primi sassi d’allerta si sogna con una mano pistola sotto il cuscino
la discordia fa dell’uno un duello un cecchino un tonfo, attento
tu che rilanci per tre la scommessa di pittare una famiglia ideale
- non siete due Santi col Bambino - l’indice può rivelarsi una canna
col mirino e l’unghia rossa uno sparo se il pollice sgrilletta allora
l’avambraccio è imbottito di parolacce bicchieri rinculi che riducono
la vostra facciata un colabrodo: se il sangue scorre è sangue altrimenti
è l’ennesimo avambraccio che perde è di nuovo frutto maturo
che già ritorna fango. Attenta ai suoi baci d’amore indelebili sulla pelle
marchi per ammansire bestiame farne proprietà privata
baci qui e qui tatuati che a ogni conflitto mutano in piranha, attento
l’astuzia è una stoffa che si cuce nella carne viva
e la malizia un accappatoio allentato da una ragazza ladra
l’orgoglio è una divisa da parata e la gelosia una camicia di forza
la rabbia è un panciotto troppo stretto e l’Amore
è luce che intesse i vostri capelli o ne fa punte doppie
Questi solchi nelle carte degli avambracci
apron feritoie da cui spiare i morti e ai morti
fessure in cui spifferar misteri ditemi
perché s’impicca in cella e la sorella mangia
veleno, i morti vedono in noi un obitorio
in perenne allestimento, il macero del vento
A qualsiasi ora sveglio la folla disegno
muto la grata in versi a cui confesso uscite
dono la voce al nostro angelo seppellito
a chi vola esiliato, vedo i seppelliti
vederci orbi pararci dalla loro luce
esplosaci nelle sbracciate accartocciate
Se osservi il nostro bacio di lato non siamo più disegni opposti
il mio profilo è una linea che rinasce e continua nel tuo
il bacio è la chiave e lo spiraglio di ogni nostra serratura.
Quando un adolescente si fucila non metterti mai in mezzo
lui è il plotone lui il giustiziato lui dà l’ordine lui lo sparo
la tua immortalità ha denti di latte le tue ali sono clessidre.
Spara ucciditi e rinasci aquila con piume così mature
da abbracciare tutto lo splendore della vita umana e’ tempo
di saltare l’ultima volta il toro, giovane bianca o scuro,
la muscolatura ti catapulti fuori dalla vertigine
dalla presa di corna dal carpiato sulla schiena dai giorni
in cui del toro si saggia solo narici e fumo occhi e sfida.
Ribellarsi è, a questa età, una profilassi
alla carezza blasfema sul volto
che ami: l’anestesia a otto patricidi.
La scorza da cui nasci resta l’unica
foto della propria rivoluzione
di costume, l’ultimo tuo sarcofago.
Per questo i padri son sempre più giovani
dei propri figli e i figli fin dal parto
sono vecchi più dei padri e del tempo.
Metti il cuore dove io non l’ho, battiti/è questo il tango
col proprio sangue/padre e figlio, guancia a guancia, l’ultimo/
passo che m’insegni il primo mosso/ con chi mi è mamma!
O sei nerbo/ o vivi come un vile sciupafemmine
dici che uno danza il disegno che ha in corpo/ - lei o ha te
o la febbre/ tu hai lei e il profilo di mille sottane ebbre -
no, un padre che ha figlio moglie no, non si può permettere
di sparire uscire dai piedi blaterando in pancia
- figlio sei uomo quando non piangi quando metti il cuore
dove non l’hai! - con te è come danzare insieme ai guai
padre, uno è uomo semmai solo se è tango guancia a guancia
coi morti, se vivi e morti son tutti padri suoi.
Stupore che sa il peso di ombra e luce:
poeta, varco nel vuoto: cicatrice attesa;
crisalide col profilo di doglie;
squarcio di scintilla che scaraventi;
nel travaglio di teneri frontali;
scava la terra trova il primo filo;
di coppelle ed armi mirra ed artiglio;
sguardo a strapiombo prima dell’assolo;
piume al baratro; acuto al sole; o scolo
Trinità Madre del Latte, del Nettare e dell’Imperfezione
che insieme siamo ramo gemma dono, nutri e foggi altri pani
d’argilla, togli e aggiungi sangue all’impasto, cuoci nel ventre
l’informe che in te torna, entra esce dall’uscio di casa per dare
sembianza al nulla, al pensiero e al mondo che ci pongono
di fronte.
Madre che mi assegni al grembo delle prime acrobazie:
un padre una
Famiglia; mi riveli che tutti gli uomini sono emorragie
nascono al tramonto e poi - è tutto un sopravvivere nella notte -
mentre spetta a noi dipingere le stelle, soli, rinnegare
che in questa mia poltiglia c’è Vita e indigesta Morte di fronte:
la schivo, chino la testa, penso non sparecchio, mi ribalto
ma con l’orizzonte mai dritto negli occhi: di fronte; diverto
mi discosto, pirlo, mi rivolto affermo che non ti conosco
ma con l’orizzonte mai negli occhi: di fronte; all’orizzonte
ci sei tu Madre, io che già mi sento pietra, al tuo volto: bifronte
Ora sai perché i nostri occhi a contatto piangono
pietre, perché il cielo resta imbottigliato in fronte
sai quanti ricatti ci sono nel mio esserti fedele
sai che due uguali a contatto s’irritano
ora sai perché trabocchiamo di luce che non si può bere.
Ora so perché il tuo bacio m’impregna
e spreme la mia carne in fiumi d’inchiostro
perché la brezza ti trapassa
e la foglia finché la guardi mai tocca terra
ora so perché le nuvole s’impigliano nel tuo ritratto
e ogni tuo gesto è l’ultimo nervo genealogico
frutto di sguardo che fiorisce al suo sfiorire
ora so quando vuoi dell’acqua uscire o annegare
d’amore perché ci strappiamo gli occhi pensiamo ora so
perché tutti i giorni ci vediamo e mai ci si guada si stona
da morire ora lo sappiamo che siamo tre occhi: i tuoi
i miei quelli della fine, che siamo puri, puri davvero, solo quando
ci appendiamo tutti interi ai muri, come quadri viviamo
con la pittura lavabile che ci copre sino agli orbicolari,
sappiamo quanto sia inutile lacrimare: tutto sbianca con una mano
di spugna, due colpi di stucco, la fine che ci resta a guardare
Padre! hai un sorriso quasi fossile!
non sai che sorridere rende uomo!
non sai che da generazioni tu padre ritagli le tue labbra!
e credendo questo patto ti salvi
le cuci sopra le gengive di me figlio!
non calcoli che se questo figlio ti rimpiazza come scapolo
si può innamorare di una ragazza che sopra i denti
stringe quello stesso fiore ereditato da suo padre
e che voi due papà, pur senza conoscervi, tutte le notti vi baciate
sgusciate lingue come lumache nella cavità dell’altro
montando papille e saliva in fragole e panna!
Padre non calcoli quanti umani si assaggiano quando baci la mamma!
Quanta fiducia riponi nei suoi trentasei denti carnivori! Quanto
vampirismo dipendenza e carotide c’è nell’affermazione: ti aamo?!
con la bocca storpia, cucita ai novembre di pioggia
questi tuoi ti aamo da sanatorio il baciarti lazzaretto
quanti morti bianche sul ciglio delle labbra
quante rose bianche nella verità delle nostre labbra
insegnami ad abbracciare il cuore padre, il senso dello stare sotto
insegnami qual è la grandezza del labbro inferiore, il dolore, lo sbocco
È da quando sono donna che dissanguo gli anni
batto la strada gli lavo i piedi coi capelli
e con spilli non più sotto il tacco ma come una farfalla
dispiego le ali e il dorso s’una bacheca di rovi t’accolgo
crocifissa per dirti quanto misura un battito materno
quanto una madre spiri di crepacuore per qualunque figlio
quanto essere madre sia condanna madida d’eterno
Sulle punte quasi stessi rincasando
tardi, danzo a un soffio da cielo e terra
per non esistere almeno una frazione
in forma di uomo o donna ma come sono
sulle punte quasi stessi rincasando
tardi, danzo a un soffio da cielo e terra
per non esistere almeno una frazione
in forma di uomo o donna ma come sono
sulle punte quasi stessi rincasando
tardi, danzo a un soffio da cielo e terra
per non esistere almeno una frazione
in forma di uomo o donna ma come sono
sulle punte quasi stessi rincasando
tardi, danzo a un soffio da cielo e terra
per non esistere almeno una frazione
in forma di uomo o donna ma come sono
…
La tua gioia è la mia agopuntura, simula
lo stesso numero di scarpe, piedi giunti che rendono l’increspatura
di non essere il passo che sono, meno duro e lento allo sprofondare.
Ci copiamo non capiamo chi è sole o riflesso pare bello annegare
mi sento mare che abbraccia mare specchio d’universo solo quando
ti asciugo le lacrime col mio pane
Così delicato che l’impronta nemmeno spunti
uomo, c’è sempre un tallone che sbuca dal forcipe
sogni come un astronauta e pisci come un aborigeno
sapessi vibrare tatto al pensiero del calcagno
infilarlo tra le forcine del tronco più retto
troppi cuori cantano a testa in giù, si gonfiano di ombre
denti in fuori mento in dentro ara l’etere
uomo, vanga il fuoco che soffia in corpo
trasparenze - ungi il fianco nel cristallo -
non è questa la nudità che insegui?
non senti i piedi contusi smembrarsi
fino a liquefare i passi in profumo
così emaciato da infrangersi ovunque?
Come deglutire tutto il mare, farne il mucchio
che sono? Come stipare ogni voce nella punta
della matita? Come raggrumare giostre
corsie ospedaliere, nello stesso tallone
accomodare te e il padre del tuo cognome? Cantare
questo è il solo sangue che il poeta può donare
consonante dopo vocale, dissanguarsi nel tovagliolo
del bar scrivere - le poesie sono di chi se le beve -
le poesie t’affacciano nel precipizio della pulsazione
per questo canto perché nella gola nessuno del coro
mai s’estingua perché quando canto m’illudo d’incarnare
l’unica lingua canto perché io non danzi con un moribondo
tuono, canto perché quando canto solo canto sono
Truccarmi per carpire i tratti nascosti di mia madre
quello che una madre non può dire ai figli e svela ai fiori
mentre l’innaffia capire se il tuo amore è ambidestro
o quando ci prendi c’è fra noi un gemello prediletto
Voglio versare nel cuore tutta la calma dei fogli
depennare dalla faccia tutti quelli che si specchiano
nel mio volto, non avere mille occhi dietro la barba
per una volta essere lo sguardo in cui mi riconosco
Nelle carni ho corpi contro corpi che premono come crampi
contratture mai riassorbite completamente: ruoli assunti:
non più nome, non un cognome che volontà o buoi porti,
fossimo sguardo che ci guarda silenzio che si parla.
Sapessi rispondere sì alla domanda: - È questa la morte? -
è una musica di pianoforte giunta alle ultime paure
Dome non preoccuparti dello spartito i tasti le luci, basta,
abbassa le palpebre; nuota senza braccioli; senza mare
Poi mi stacchi dal cielo adagi ciglia
con le nocche penzolanti sui denti
riposo in braccio al bacio di mia madre
che mi culla su fette di pane apri
la bocca e m’inghiotti nel seno mai
mi vedi per così: coi bulbi senza
tuorlo mentre trascinano il mio sguardo
che la fissa incurante delle buche
e del suo strazio che m’inzuppa il viso.
Inarchi gravidanze nella zanna
fuori dal grembo intagli urla neonate
e ora come un ponte con le costole
fratturate la inghiotto nel mio torace
privo di polmoni con le sue urla
ancora vive soffocate a mucchi
ora ti comprendo! ci rinfacciamo
schiena contro schiena il mio schianto al suo
schiena nella schiena il mio spiro il tuo
E mi chiedi come distinguo la fine
non all’ultima poesia o al punto o a capo
la fine d’un libro si mostra quando
la schiena all’orizzonte schiuma, mai
mi trovo all’altezza quando bussi entri
nella carne mi dici che sei morto
su due piedi dai la schiena sprofondi
sordo esci di scena da me vorresti
sorrisi invece piango più per me
che per te - dei topi ho ancora paura -
resta! le mie chele ficcate in gola
resta! il mento che ti affonda la schiena
- così ci si uccide due volte - ad ogni
costo trattenersi non accettare
che la tua vita non sia mia, né sia
mia la mia, nella fine nessun bene
viene sottratto ma in terra rinasce
un seme, tu io dormienti tra due schiene
Una madre storta sul canarino
è vasta più d’un matrimonio un dio
la sua mano è gradina che percorre
la nuca e sbozza nel cranio carezze
scoprendo fra i capelli angoli, urgenze
rattrappite - craniate nel buio ragli
quel folle brancolare nell’abbaglio
che urta statua e scultore nella scaglia -
la madre sul bambino… quel non più
loro parlarsi per fosse comuni
La fronte di mio padre è lunga otto ore
non ha capelli intorno ma irte donne
a lutto, fra gli occhi ha un cestino dove
porre baci impacchettati da troppi anni.
La fronte di mio padre è pianura al sole
ma nel resto è come noi: non finito
scabro dolore, per questo ti prego
ora padre lascia che tuo padre sia io
la mano sotto la nuca la mia
sia, padre morto, tu bambino mio
Con il capo perno al centro del cosmo
e i piedi pedalanti all’inseguimento del vuoto
la tua immaginazione per ennesima o radice
mi battezza Messia prima e giuda poi.
Ora zoppichi e vaneggi revolverate a Dio
fai ciao mostrando buchi e disprezzo per scuffia e dulia
te ne vai per gli unguenti della città col mio bacio
per sempre cucito alle labbra e i tuoi inceppati in gola.
Sei l’incendio e il rammendo
ora che la nostra anima è divenuta lino
la sindone vivente che formiamo non ci avvolge
in crocifissi né capestri non riscopre volto
a omicidio o suicidio ma semplicemente il corpo
di un risorgere naturale le cui macchie, verdi
come l’erba e le foglie, restituiscono
un bassorilievo di ricordi somigliante e misterioso
Di sette cieli vuoi salire l’ottavo, l’ignoto
fino all’ultimo metro speri il salto dalla torre
s’impenni, o un palmo ci afferri non sopporti l’equilibrio
asimmetrico figuriamoci il peso di uno specchio
o l’idea che l’incastro esatto non sia di macchie
la nostra bellezza semmai sta nello sposare sfide
già perse giurarsi eterno amore questa la folle
bruciatura che ci marchia umani davvero.
Il deserto fra noi ci screpola sgretola il mondo
il deserto è l’abito che ci cuce insieme, sei
la parte migliore di me quindi non merda o sputo
mestruo piscio o sudore nulla è rifiuto se viene
da te, se il nostro bacio è l’elica di ogni fuoco,
siamo fiamma che ripara tra due dita d’enigma
Cristi privi di scopo, l’infinito punto a capo
nel bregma, quel vuoto ignoto prima di essere dopo
(Qui è possibile leggere i testi di Dome Bulfaro tratti da Settimo quaderno di poesia contemporanea, Marcos Y Marcos, Milano 2001)
***
Nota biobibliografica
Dome Bulfaro (Bordighera 1971) è poeta e artista.
Come poeta ha pubblicato la silloge Ossa. 16 reperti nel VII Quaderno di Poesia Contemporanea (Marcos y Marcos, 2001), a cura di Franco Buffoni, con nota introduttiva di Fabio Pusterla, e la plaquette “Prove di contatto” (Coen Tanugi Editore, 2006) a cura di Rosachiara Terenghi e Valentino Ronchi. Suoi testi e interventi sono presenti in numerose riviste di settore tra cui La Mosca di Milano, La Clessidra, Le voci della Luna, e in Wok n°1 rivista della civica Galleria d’Arte Moderna di Gallarate in cui ha pubblicato la silloge Versi a Morsi.
È presente nell’antologia “Subway 2004-2006. Poeti italiani underground” a cura di Davide Rondoni (prefazioni dello stesso Rondoni e di Milo De Angelis) ed è stato incluso tra gli autori/performer nati dopo il 1970 nell’antologia Il volo del calabrone, a cura de Gli Ammutinati di Trieste (nota introduttiva di Aldo Nove e postfazione di Gabriele Frasca).
Sulla rivista americana Interim è stata pubblicata la traduzione in inglese di Ossa. 16 reperti a cura del poeta Christopher Arigo.
È uscito di recente Carne. 16 contatti (D’IF di Napoli, marzo 2007) vincitore del Premio di Letteratura intitolato a Giancarlo Mazzacurati e a Vittorio Russo
Ideatore di numerosi eventi poetico-artistici di grande riscontro, ad oggi, è direttore artistico della stagione poetica Poesiapresente per il Comune di Monza, città in cui vive.
Come artista le sue ultime personali sono avvenute alla Galleria Vanna Casati di Bergamo (galleria con la quale ha partecipato a Miart 2007) e a Milano presso Spaziostudio di Patrizia Gioia. Il suo lavoro artistico è sostenuto dal 1999 dalla Galleria Dieci.Due!
***
Recalcati
Claudio Recalcati
Carne 16 contatti
Grande poeta espressionista, rarità assoluta in questi tempi che sanno di realismo mascherato di socialità, di neo-orfismo ben travestito e lungi da essere canto della visionarietà.
Dome Bulfaro, dopo l’esordio brillante nel VII Quaderno di Poesia Contemporanea a cura di Franco Buffoni, e dopo rare apparizioni in riviste e plaquette, ci dona (ed è proprio il caso di usare questo termine) uno scarno libretto, ad opera d’un meritorio editore, che raccoglie la sezione Carne, uno dei suoi scritti migliori, e che giustamente vince il prestigioso “Premio Mazzacurati/Vittorio Russo”.
In questa cavalcata attraverso il corpo, che non dovrebbe conoscere spirituali risalite, ma solo bassezze, storture, vista e considerata la posizione modernista che esso occupa, Bulfaro ci conduce ad un percorso di risalita, inaspettato quanto voluto, poiché egli nega più volte la caduta dell’essere, le sue bassezze.
Il corpo non è mai visto quale franare dell’umano ma figura pulsante dell’esprimersi.
Viene da pensare al poeta francese Bernard Noel, a quella strepitosa odissea interiore che è l’ultimo mondadoriano scritto Estratti del corpo dove esso, il corpo, diviene l’unica mappa attraverso la quale giostrare la propria voglia d’avventurarsi nel mondo.
Corpo quale universo, grande raccoglitore di milioni di fantasie.
Ed allora sentiamo pulsare le vene alla lettura di ogni mini sezione, di ogni arto o muscolo nominato, poiché in ciò si ricompongono gli uomini, in questo destino-sorte, che è carcassa e resistenza, potenza e debolezza di tutti noi. Un tracciato interiore, un’investigazione capillare di ciò che siamo, o che avremmo potuto essere o saremo.
La voce di Bulfaro non tradisce mai la stanchezza, pari al suo essere infaticabile organizzatore di eventi culturali, si gonfia all’estremo, straborda ansimante, a tratti diviene oceano che calpesta l’ipotetico lettore.
Rugge e si fa teatro della recitazione, e come non pensare i suoi versi se non recitati, così conquistando il ruolo di una giovane poetica che fonde l’oralità al testo scritto, si fa testo moderno occhieggiando alla tradizione poetica che la volle canto.
Da anni apprezzato autore, decide il suo reale esordio e fa sì che esso non sia antologia dei suoi migliori versi ma testo che pare, fra i pochi componimenti da lui scritti, unico in tutti i sensi.
Conosce bene la sua poesia e su di essa gioca, plasma e riplasma il verso sino a trovare quell’esatto verso che ci cattura.
Le note al testo aiutano il lettore ad affrontare la lettura, e sono frutto dello stesso autore che ci conduce nel suo mondo segreto volendoci a sé vicini.
Certamente poesia in nome dell’avanguardia più nobile, e con questo penso ad Emilio Villa ed a Edoardo Sanguinati fra i rari autori che hanno saputo coniugare avanguardia e voglia di dire, farsi voce portante d’un messaggio poetico.
“Carne” è il lavoro compiuto e maturo di un artista al quale riesce, ed è una rarità, tutto sorprendentemente bene. Bulfaro è un eccezionale disegnatore, un infaticabile studioso, un organizzatore vulcanico, un giovane che non trova requie.
Così come dovrebbero essere gli uomini tutti, assetati di conoscenza.
Fra i componimenti spicca “Carnificazione. Contatto n° 0” che apre il libro, dove gli arti e gli organi del corpo, presi dal fremito rivoluzionario del dire, sembrano litigare ed opporsi uno all’altro, sembrano voci a negare la voce d’altri.
In questa epoca di giovani che per esordire emulano, troppo spesso, i cosiddetti maestri, Bulfaro si dona agli altri con un passo e un dettato tutto suo e per nulla timoroso della critica si espone alla lettura.
Non ha padroni Dome Bulfaro, non conosce altro che la sua ampia formazione culturale e non si lascia influenzare da nessuno pur avendo assorbito le diverse forme dell’arte del Novecento.
Bisognerà pur far qualcosa, prima o poi, per i poeti coraggiosi, quelli che senza cordate tentano la cima in solitaria.