Giulia Conigliaro su L'eco della città
Monica Guzzi su Il giorno del 29 novembre 2016
Fonte: www.poesia2punto0.com
6 Giugno 2012
di Dome Bulfaro
Vorrei affrontare la questione oralità-scrittura non da poeta ma semplicemente da didatta dell’Arte di dire poesia ad alta voce. Gli esempi che porterò saranno volutamente circoscritti all’Italia del Novecento fino ai giorni nostri.
Dire poesia ora apre, inevitabilmente, alla complessità. Per conoscere vie di ricerca e poeti che hanno mutato o stanno mutuando nuovi/antichi rapporti tra poesia, voce e musica bisogna muoversi in un paesaggio disorientante e frastagliato: si va dalla scrittura poetica pubblicata su carta alla sua oratura; dalla poesia detta in pubblico alla poesia col pubblico; dal poeta orale in assolo al poeta orale corale; dalle sperimentazioni improvvisate in presa diretta ai reading preparati nel proprio studiolo.
Questi appunti desunti da due incontri teorico-dimostrativi che ho tenuto al CPM, Music Institute di Milano, spero possano tornare utili a chi, senza punti di riferimento, voglia incamminarsi nella giungla di voci poetiche moderne e contemporanee al fine di coltivare, con fare maieutico, la propria voce.
Cercherò di mettere in rilievo una parte di ciò che in Italia si fa e va divulgato; e ciò che manca e urge fare.
Manca, senz’altro, un’antologia poetica multimediale che storicizzi il Novecento, guardando alle esperienze, notevoli in Italia nei primi decenni del XX secolo e negli anni Cinquanta-Settanta, e certamente ferventi anche in questo inizio di XXI secolo; sono tre periodi accomunati dallo stesso spirito rinnovatore e spalancati alle infinite possibilità espressive della poesia nel mondo.
Manca una didattica che soppianti il circolo vizioso in atto rispetto all’Arte di dire poesia ad alta voce. In Italia questo insegnamento è lasciato nelle mani dei docenti di italiano delle scuole dell’obbligo o in quelle degli insegnanti di teatro. I risultati deludenti sono figli di questo stato dell’arte. E di questo stato i poeti non sono esenti da colpe, anzi. Gli interventi in questa rubrica di Umberto Fiori, Lello Voce e Gabriele Frasca offrono un quadro piuttosto esaustivo delle ragioni ideologiche che stanno alla base di questo atteggiamento.
Manca anche solo l’elementare riconoscimento, da parte della maggior parte dei poeti e dei critici letterari, che dire poesia ad alta voce è un’Arte e che, in quanto tale, necessita di abilità da affinare con mestiere, acquisendo le dovute competenze.
Manca un’Accademia del dire poesia ad alta voce o, più banalmente, manca un “manuale” ragionato multimediale che riunisca metodi e tecniche attualmente proposte in Italia: dall’esperienza di Rosaria Lo Russo come didatta e femmina fonica dei suoi melologhi, alle esperienze laboratoriali del Teatro Valdoca, dal metodo della “poesia integrata” di Biagio Cepollaro, all’haiku orale secondo Pietro Tartamella (…); esperienze metodologiche che andrebbero coadiuvate sia con riflessioni teoriche, oltre che dei didatti coinvolti, di poeti come Franco Fortini, Elio Pagliarani, Gabriele Frasca, Lello Voce, Ida Travi, Umberto Fiori, Mariangela Gualtieri, Franco Loi, Raffaello Baldini, Nicola Frangione (…), sia con analisi critiche di studiosi come Marianna Marrucci, Paolo Giovannetti, Daniele Barbieri (…). Chi, oggi, insegna poesia italiana ad alta voce si deve muovere in una galassia frammentaria di volumi monografici, articoli, antologie monocorde, libri con CD, video su internet.
Potranno certamente tornare molto utili, sul piano didattico-teorico, testi come: “La lettera che muore” (Meltemi, 2005) di Gabriele Frasca, in cui l’autore rimettendo in discussione la “Letteratura” nel reticolo mediale, di fatto la sdogana per come l’abbiamo concepita negli ultimi secoli, rimettendo in discussione anche l’attuale modello culturale di poeta; “Poesia per musica e musica per poesia. Dai trovatori a Paolo Conte” (Carocci, 2006. Con CD) di Stefano La Via, libro in cui si entra nelle pieghe del rapporto tra poesia e musica; “La voce in movimento” (Harta performing, 2003. Con CD) di Giovanni Fontana, opera in cui si indaga la vocalità, le scritture e le strutture intermediali nella sperimentazione poetico-sonora del Novecento.
Garantiscono un continuo aggiornamento, oltre che costituire fonte d’informazioni sull’argomento qui trattato e non solo: Absoluteville (http://www.absolutepoetry.org/) il blog-città di Lello Voce, Luigi Nacci, Gianmaria Nerli & C., in cui si progettano, ragionano e dibattono, infinite forme di poesia; In Pensiero, rivista semestrale multimediale (diretta dallo stesso Gianmaria Nerli), che pone a confronto arti e linguaggi che sperimentano il presente.
Mancano, in tal senso, occasioni di confronto internazionale, quali sono stati i festival Milano Poesia, Romapoesia, Absolute poetry, in cui la relazione tra scrittura e sperimentazione (spesso poetico-orale), poesia e arti, erano chiamate alla prova del fuoco.
Manca, in generale, un approccio trasversale che, in modo disinibito, tra storia recente e presente che potrebbe diventare storia, sappia scandagliare il rapporto tra poesia/musica/canto spaziando dalle collaborazioni tra Edoardo Sanguineti e Luciano Berio o Andrea Liberovici alle relazioni con l’opera lirica di Saba, Montale, Caproni e Penna; dal binomio Pasolini/Morricone ai testi scritti da Alberto Masala per il gruppo sardo a tenore; dalle partiture in versi di Amelia Rosselli ai “fendenti fonici” di Jolanda Insana; dalle collaborazioni artistiche di Nanni Balestrini con musicisti come Luigi Cinque o come Peppe Servillo e Fausto Mesolella della “Piccola Orchesta Avion Travel”, alle giovani ma già ben collaudate scritture degli “Ammutinati” di Trieste, di Adriano Padua (rap) e Chiara Daino (heavy metal); dalle performance intermediali, totali, storicizzate di Adriano Spatola alle prove intraverbali della giovanissima Sara Davidovics (…).
Manca un atteggiamento meno ideologico di fronte a forme poetiche di matrice popolare o underground, che arrivano dal basso, come il poetry slam. Praticando il poetry slam, ho potuto comprendere meglio, pregi e difetti di questa macchina scenica che ha la capacità, come nessun mezzo oggi, di restituire la poesia, in quanto fatto sociale, alle giovani generazioni. In qualità di MC (Maestro di Cerimonia), grazie al Festival di Poesia Civile di Vercelli, diretto da Antonio Buonocore, propongo da anni il poetry slam all’interno di un Liceo Scientifico della città. Le insegnanti mi hanno confermato che, l’incontro da parte degli studenti con tutti quei giovani poeti/slammer che di anno in anno hanno partecipato a questi poetry slam, ha sempre portato ricadute benefiche, non preventivate, anche sullo studio di Dante, Petrarca, Saba, Quasimodo. Il format del poetry slam permette allo studente di ricostruire con la poesia una relazione positiva, appassionata, nella quale l’allievo non sostituisce i suoi modelli culturali ma li moltiplica allargando il suo orizzonte di ricerca personale e sociale.
Perché questo manca in definitiva, a tutti, anche a chi è più addentro: la visione totale, l’insieme della poesia orale. E’ questa la fase poetico-politica che dobbiamo aprire. In Italia il campo d’indagine del rapporto tra oralità e poesia è ancora limitato e frammentato. Abbiamo invece bisogno di respirare aria internazionale e fluire all’interno di un orizzonte in cui tutto è, contemporaneamente, bene a fuoco.
Senza questa nuova fase resteremo preda delle correnti dell’oralità, senza sapere ad esempio quali conoscenze sono state acquisite dalla poetry therapy e come possono rientrare nella ricerca di scrittura e oratura; come il recupero dell’oralità-scrittura delle filastrocche, degli stornelli e delle ninne nanne, possa ancora insegnare a chi compone versi per “grandi”; quanto l’oralità della poesia dialettale possa ancora offrire alla lingua italiana e viceversa; quanto la vocalità di certa poesia sonora possa far riflettere sulla musicalità di certa poesia lineare; quanto la pratica della spoken word e della spoken music ci aiuti a comprendere le tradizionali forme della canzone, del sonetto, dell’ode, della ballata, del madrigale…
La creazione, come un sasso nello stagno, può essere consustanziale alla manifestazione della voce, ma non necessariamente alla sua oratura. Dunque ritorniamo a bomba alla domanda: come dire poesia ora? Leggendo? Declamando? Rappando? Teatralizzando? Salmodiando? Cantando?
Come parlare di poesia orale se nemmeno i termini tecnici che impieghiamo non rientrano in un glossario comune?
L’insegnamento dell’Arte della poesia ad alta voce richiede, in questo momento, che i termini adottati siano, in buona sostanza, condivisi e semplici da apprendere e da classificare. Ad esempio poeta orale, poetrice/poetore, poetante… persino termini come oratura, che pure ha trovato una sua centratura, stentano ancora oggi a trovare adozione tra gli stessi poeti figuriamoci nel grande pubblico. In genere questi termini, durante i laboratori, li semplifico per sommi capi come segue:
- per oratura, parola che nasce dall’unione di oralità e scrittura, intendiamo l’arte di mettere in voce una poesia scritta, sia essa nata per essere detta pubblicamente o da leggere, principalmente ma non solo, in solitudine.
- per poeti orali intendiamo, di norma, poetori (dicitori) o poetrici (dicitrici) di poesia che mettono in voce ad Arte i propri versi, arte che contribuisce in modo significativo alla poetica dell’autore.
- per poetanti s’intendono coloro che dicono ad alta voce versi altrui. Alcuni fra questi poetanti interpretano, traducono, intonano in modo così autorevole quella data poesia, quel dato poeta o i versi di autori che compongono in una determinata lingua, da affermarsi quali poeti orali a tutti gli effetti.
Tra poetore e poetanti, secondo questa classificazione, esiste la stessa distinzione che in musica si applica fra cantautore e cantante. Il poetore è un compositore anche del testo scritto oltre che della sua oratura; il poetante compone solo ed esclusivamente l’oratura del testo scritto.
I poetanti, attraverso l’oratura, come veri e propri interpreti degli spartiti musicali, traducono secondo il proprio sentire ed essere, la voce depositata dall’autore nella scrittura. Penso, attenendomi ai soli poeti del Novecento, a Gianfranco Scotti, calibrato traduttore orale della poesia milanese di Delio Tessa; a Carmelo Bene che va considerato, fuori dagli schemi, per l’intonazione attuata ai versi di Campana, poeta della voce; a Demetrio Stratos, che per come ha cantato la voce –interpretando, tra molti altri testi, anche “Le Milleuna” (piéce per danza di Valeria Magli) di Nanni Balestrini– va considerato poeta sonoro con tutti i crismi (Arrigo Lora Totino docet).
Di solito i/le grandi poetori/poetrici sono anche grandi interpreti di versi altrui, com’è il caso ad esempio di Rosaria Lo Russo per Anne Sexton, o Luigi Nacci per Cesare Pavese, o Giovanni Fontana per i Futuristi.
Tra le due categorie esistono casi come il duo Claudio Recalcati/Edoardo Zuccato che nella doppia veste di poeti/traduttori in milanese rendono brillantemente, contestualizzate ai giorni nostri in Italia, le ballate di François Villon.
Attenzione al pericolo, allerto soprattutto i neofiti dell’oratura, di cadere vittime dell’ideologia di ritorno nei confronti dei poeti “di carta”: anche se nella stragrande maggioranza dei casi il poeta non dice i propri versi ma semplicemente li legge senz’arte, ciò non significa che i poeti “di carta” non debbano essere oggetto di studio o, peggio ancora, debbano essere rigettati. Il fatto che Montale leggendo “butti via i propri versi”, contrariamente ad Ungaretti che li scolpisce con voce stentorea nello spazio-tempo, così come la sua scrittura li incide in modo lapidario nella pagina bianca, non tragga in inganno. Persino la lettura pubblica a grado sottozero di Vittorio Sereni ci può chiarire la qualità di lettura, lineare e distaccata, di un contemporaneo lombardo come Giampiero Neri: specie quando legge le sue prose poetiche, Neri aderisce perfettamente ai suoi componimenti.
Basterebbe il rispetto della poetica dell’autore, il semplice rispetto delle forme e della metrica, nelle sue componenti prosodiche, metriche (in senso stretto) e strofiche per ottenere una messa in voce corretta del testo poetico. Se, ad esempio, il piede della poesia “Batte botte” di Dino Campana è un trocaico quaternario suddiviso in quartine, la dicitura deve attenersi a quanto composto dal poeta di Marradi. Le allitterazioni, le anafore e le epifore, devono illuminare il ritmo battente della partitura e far squillare le immagini fino al verso conclusivo «batte botte», dove la parola “botte” che suggella il componimento, può risolversi con tre messe in voce diverse: o con accento grave –bòtte– o con quello acuto –bótte– o mantenendo la “o” di botte, come scritta nel testo, né aperta né chiusa ma vocalizzandola esattamente a metà, tra l’accento grave e quello acuto.
Poesia, quella di Campana, ripresa da Giorgio Caproni con l’omaggio “Batteva”, testo sui cui, in oratura, andrebbero sviluppate ben altre riflessioni e conclusioni rispetto alle indicazioni dedotte dalla composizione campaniana di partenza.
Approcciare al testo da poeta, da attore e da musicista determina tre diverse orature. Comparare, ad esempio, come De André, Vittorio Gassman e Maria Pia De Vito hanno risolto “S’i’ fosse foco, arderei ‘l mondo” di Cecco Angiolieri aiuterebbe a comprendere meglio anche i distinguo tra poetore e poetante.
L’attore per sua formazione, salvo Bene e pochi altri casi, in genere non è un grande poetante. Egli, di solito, applica al testo poetico le proprie capacità teatrali privilegiando ed enfatizzando concetti e immagini, appoggiandosi a parole e sottolineando pause, che di fatto risultano avulse dalla composizione metrico/prosodica della poesia. Il rischio che la deformazione dell’arte da cui proveniamo si anteponga o prenda il sopravvento sull’arte della poesia, riducendo il testo a pretesto, incombe sempre dietro l’angolo.
Per contro ci sono esempi provenienti dal teatro come quello di Arianna Scommegna, che per come l’ho vista interpretare la “Cleopatràs” di Giovanni Testori, credo non incontrerebbe difficoltà nell’interpretare anche i suoi “trionfi”. Paolo Poli, con la sua rispettosa irriverenza, rende assoluta giustizia ai versi di Aldo Palazzeschi.
Per un poetore non è saggio escludere dal suo apprendistato le tecniche dell’attore, le quali torneranno sempre utili nell’interpretare alcuni passaggi teatrali di un determinato testo come di diversi autori, la poesia dialettale quanto quella piana/oggettiva, la poesia per teatro come il crossover del teatro-poesia.
Dire a memoria una poesia o eseguirla leggendola come fosse uno spartito, se dal punto di vista didattico non determina una classificazione, sicuramente in alcuni ambiti diviene una discriminante in negativo o positivo. Inoltre le tecniche di respirazione, memorizzazione e improvvisazione sono certamente materia della poesia ad alta voce, poiché spesso vanno ad incidere sul processo di scrittura.
La poesia estemporanea ha una tradizione popolare millenaria che ha trovato nel freestyle dell’hip hop una forma contemporanea. Sappiamo che in diverse parti del mondo sta rinascendo l’arte popolare dell’improvvisazione in versi. Vedere all’opera Alexis Díaz-Pimienta, poeta cubano estemporaneo, che improvvisa in decime è una lezione da non perdere, ma non mancano esempi di riguardo anche in Italia. In Toscana il recupero dell’improvvisazione in ottava rima ha raggiunto il climax con la fondazione nel 2006 de “L’Ottava – Accademia di Letteratura Orale”, promossa da David Riondino e realizzata dall’Associazione culturale Giano. Lo studio della poesia estemporanea ha indirettamente delle ricadute anche in termini di scrittura, poiché la poesia estemporanea come nel caso dell’ottava rima, cantata a braccio, sviluppa uno stile narrativo-metrico che necessita della pratica di metodi di memorizzazione, basati appunto sulla metrica e la rima, da coniugarsi con l’andamento creativo narrativo e i movimenti ritmici del respiro, della pulsazione, della gestualità che caratterizzano il nostro corpo nella quotidianità.
Memoria e creazione, appaiono inscindibili, ma in tutt’altra forma, anche in Ida Travi. Quando ho assistito dal vivo a come la Travi prende contatto e dice le proprie poesie, ho pensato le stesse accadendo qualcosa di analogo a chi è affetto da ipermnesia. L’ipermnesia, non è riconducibile solo all’idiot savant o ai paranoici ma anche a persone particolarmente intelligenti. L’ipermnesia, che può presentarsi anche in forma temporanea, permette di entrare in uno stato di ipnosi (che differisce dalla condizione fisiologica della trance) regressiva, facendo riemergere in modo intenso e improvviso ricordi fino a quel momento immersi nell’oblio. Una regressione che può condurre, oltre il tempo della propria vita, in un logos mitologico inaudito.
La ripetizione a memoria di alcune poesie, che il testo sia stato composto o meno con fine terapeutico, porta a breve o lungo termine dei benefici psicofisici, come scoprì per la prima volta Patrizia Valduga che riuscì a calmare un attacco di panico in metropolitana ripetendo a mente i versi della poesia “L’ultimo sogno” di Giovanni Prati. Non a caso la Valduga è stata, in anni dominati dal verso libero, fra quei poeti che più hanno riportato in auge il valore della rima e della forma chiusa, rifacendo esplodere la problematica della parola memorabile in tutta la sua portata.
La poesia, perché essa sia, deve essere memorabile. La poesia batte il tempo. Tra parola e musica accade la poesia batta il tempo: prosodia, metrica, rime, versi, piedi, ictus, a furia di battere alla porta del tempo aprono crepe che ci precipitano fuori dal tempo.
Quando l’anima del poeta e l’anima del proprio tempo s’appiedano, con lo stesso passo, nello stesso tempo, risuonano l’un nell’altro muovendosi immobili.
I poeti contemporanei e del Novecento, nel riscoprire le modalità poetiche dell’oralità primaria, sono andati e vanno a tempo e fuori dal tempo, fino a farlo crepare, fino a crepare nel respiro e nel battito dentro. I poeti battono il tempo stando tra. La poesia accade tra la parola e la voce. Tra scrittura e oratura. Tra il dire e l’ascoltare. La poesia accade nell’ora, contemporaneamente dentro e fuori dal qui. La poesia accade quando l’ora non ha più un qui e non è ancora.
Dire poesia ora è un tra dire. È l’Arte di “tradere”, con ciò che c’è di più effimero, l’eternità.
Dome Bulfaro è nato a Bordighera nel 1971 e vive a Monza. È poeta, performer, artista, insegnante.
Insegna progettazione e scultura (Discipline Plastiche) presso il Liceo Artistico Statale “B. Munari” di Crema (CR) e pratica da anni, costantemente, una didattica d’Autore applicata alla poesia contemporanea per bambini e adulti – scritta e ad alta voce – tenendo seminari e corsi in numerose scuole; ha tenuto laboratori di poesia performativa per Absolute Poetry, Festival di Poesia Internazionale a Monfalcone (GO), il CPM Music Institute di Milano, La Scuola delle Arti di Monza e la Fondazione Fiumara D’Arte Antonio Presti in Sicilia. Scrive poesie anche per bambini ed ha ideato progetti di poesia sociale, come “Poesia buona come il Pane” e “Poesia pop-up”, in cui il bambino non è considerato consumatore della cultura degli adulti ma creatore di cultura per gli adulti.
Ha pubblicato Ossa. 16 reperti (Marcos y Marcos 2001), Carne. 16 contatti (D’IF 2007) vincitore del Premio di Letteratura “Giancarlo Mazzacurati e Vittorio Russo”, Versi a Morsi (Mille Gru 2008, con DVD), Milano Ictus (Mille Gru 2011, con DVD) da cui è stato tratto l’omonimo spettacolo crossover di poesia, teatro e musica (regia Enrico Roveris). Suoi testi poetici sono stati pubblicati negli Stati Uniti (Interim 2006) e in Scozia (Luath Press/Torino Poesia 2009) tradotti dal poeta americano Christopher Arigo. Nel 2012 è uscito Ossa Carne (Dot.com Press, Le voci della Luna, 2012, con CD, traduzioni in inglese di Cristina Viti). Ha vinto diversi premi di poesia ed è stato pubblicato in numerose antologie, blog e riviste letterarie italiane. E’ stato redattore della rivista “La Mosca di Milano” ed è attualmente redattore del semestrale multimediale “In Pensiero, arti e linguaggi che sperimentano il presente” (www.inpensiero.it). Ha collaborato con numerosi artisti e musicisti, in particolare dal 1997 forma il duo Versi a Morsi con il batterista Massimiliano Varotto; dal 2010 studia canto armonico con il cantante Lorenzo Pierobon. In Italia è uno dei pionieri della Poetry Therapy: dal 2009 infatti realizza progetti in collaborazione con diversi ospedali italiani e svizzeri; è tra i più versatili interpreti orali della poesia italiana; è tra gli MC (Maestro di Cerimonia) di poetry slam più attivi. Ideatore di numerosi eventi, è fondatore e co-direttore artistico di PoesiaPresente (www.poesiapresente.it), azione culturale che ritiene parte integrante della propria poetica di autore.
Fonte: www.poesiadelnostrotempo.it
Può raccontarci brevemente la storia di Edizioni Mille Gru e delle sue collane dedicate alla poesia? Quali sono, a Suo giudizio, le peculiarità che la caratterizzano e la differenziano dalle altre case editrici?
La peculiarità del nostro operato, anche al di là dell’editoria, è stato ed è tuttora sempre lo stesso: pubblicare ciò che manca e serve in Italia per aprire strade non battute o poco battute. Per questa ragione il nostro gruppo di ricerca Mille Gru, nato nel 2006, è stato “obbligato” in breve a diventare anche una casa editrice dato il gravissimo vuoto culturale che in quegl’anni c’era in termini di editori pronti a pubblicare prodotti di qualità per divulgare la poesia orale. In un certo senso il nostro motto “fai ciò che manca” potrebbe mutuarsi in “pubblica ciò che manca”. Dal 2008 abbiamo iniziato a editare, nella collana PoesiaPresente, libri molto curati di poesia performativa con allegati CD o DVD, con l’intento di divulgare autori stranieri inediti in Italia come l’iraniana Ziba Karbassi, l’inglese Stephen Watts, la sudafricana Tania Haberland, poeti slammer europei (in Voice Waves. L’onda della voce, 2020) oppure poeti italiani come Rosaria Lo Russo, Simone Savogin e opere del sottoscritto, con la regia di Enrico Roveris, queste ultime frutto di produzioni dell’intero gruppo di Mille Gru (Versi a morsi; Milano Ictus). Dal 2009 abbiamo cominciato a editare progetti e libri di poesiaterapia, ambito che negli ultimi anni più caratterizza l’attività della nostra casa editrice.
Potrebbe enunciare i criteri di scelta a cui vi attenete per le pubblicazioni di poesia? C’è uno stile che è prediletto più di altri? Si può parlare di una linea editoriale che caratterizza Edizioni Mille Gru in ambito poetico e se sì, può definirla?
Prima di essere una casa editrice siamo un gruppo (attualmente di 12 persone) che fa ricerca poetica, quindi i criteri di scelta sono principalmente due: pubblichiamo ciò che per noi è necessario introdurre o divulgare nella cultura italiana, oppure pubblichiamo libri che diffondono le nostre ricerche che più riteniamo significative. Attualmente abbiamo quattro collane: una di poesia performativa (PoesiaPresente, di colore blu), una di poesiaterapia per bambini (Tita, di colore rosso), una di studi e pratiche sulla poesiaterapia (Tita +, di colore giallo) e una di librini sulla interculturalità e interreligiosità (Semi, di colore bianco). Non accettiamo manoscritti o proposte di pubblicazioni dall’esterno. Il libro nasce e matura all’interno di un confronto di gruppo, allo stesso modo matura la scelta delle opere di autori su cui vogliamo investire energie, tempo e denaro. Non so se essere o non essere contento ma, ancora oggi, dopo undici anni di pubblicazioni relative alla poetry therapy, restiamo l’unica casa editrice italiana che pubblica con continuità titoli di poesiaterapia o produce letteratura in questa disciplina con la rivista online Poetry Therapy Italia. Credo che oggi, rispetto a tutte le altre case editrici, Mille Gru si distingua principalmente per questa attività.
Quali sono i titoli più venduti e le/gli autrici/autori più amati del vostro catalogo di poesia? Ha qualche aneddoto da raccontarci in merito a qualche titolo, a cui Lei è particolarmente legato?
Prima di fondare il 1 febbraio 2020, PoesiaPresente LaB, la nostra Scuola di poesia, la maggior parte dei nostri titoli li abbiamo tirati in 200-300 copie. Una volta vendute le copie della prima tiratura i libri non venivano più ristampati perché non potevamo fare magazzino. Per questo molti nostri titoli sono attualmente esauriti. Ora che abbiamo una sede abbastanza spaziosa e che il digitale comincia ad essere di qualità, probabilmente potremmo muoverci diversamente. Non dovendo campare di editoria, pur restando attenti a non andare in perdita, ci possiamo permettere di pubblicare solo ciò che amiamo senza l’assillo di dover vendere tante copie. I nostri libri che hanno venduto di più sono: Scacciapensieri. Poesia che colora i giorni neri (poesiaterapia) e Come farfalla di Simone Savogin (poesia performativa), che hanno venduto un migliaio di copie. Poi Tita su una gamba sola di Patrizia Gioia (poesiaterapia) e il mio Milano Ictus (poesia performativa) che hanno toccato le 500 copie. Invece la più grande soddisfazione in termini di premi ce l’ha data il libro Controlli di Rosaria Lo Russo con video di Daniele Vergni, quando nel 2017 ha vinto il Premio Nazionale Elio Pagliarani.
Che cosa sta succedendo nel mondo dell’editoria in questo difficile frangente, dopo l’emergenza sanitaria e il prolungato periodo di confinamento che ha congelato molte attività, precipitando il paese in una nuova crisi? Quali sono le difficoltà, i possibili scenari futuri, i punti di fuga e le eventuali aperture? Quali strategie di sopravvivenza sono ipotizzabili, secondo Lei?
La filiera del libro ha la libreria come terminale. Se le librerie restano chiuse tutta la filiera s’inceppa. Se Amazon cannibalizza tutto il mercato della distribuzione di libri online gli sbocchi si chiudono prima ancora di aprirsi. Le risposte in situazioni di dura crisi come questa sono sempre le stesse: creatività, determinazione malgrado tutto, qualità e non quantità, attenzione alle possibilità ed eccellenze del territorio, sostegno economico statale causa pandemia, cura delle relazioni personali con il cliente ma anche con le altre librerie e, in genere, con gli altri commercianti. Un esempio per tutti: nel periodo di isolamento forzato la mia libreria di fiducia, “Virginia e Co” di Monza, per continuare a vendere libri si è appoggiata per il ritiro della merce, al negozio di alimentari che poteva restare aperto e avere contatti diretti col pubblico.
Da diversi anni all’editoria tradizionale si sono andate affiancando, affermandosi sempre più, nuove tendenze che vedono internet (dai blog/siti specializzati ai vari social) come dinamico luogo di scritture: per quanto riguarda la poesia, la Rete può aiutare o al contrario ostacolare la diffusione dei libri di poesia? Sempre a causa dell’emergenza sanitaria molte presentazioni di libri sono state rinviate e sostituite da video, che hanno affollato i social nei mesi del confinamento: che cosa pensa di questa nuova modalità di relazionarsi con il pubblico?
Alla Rete si deve il rilancio della poesia, tanto che ultimamente parlare della poesia come la Cenerentola o ancella delle Arti maggiori non ha più senso. La poesia grazie alla Rete sta riscoprendo la propria giovinezza, la propria voce, il proprio corpo orale, fluido, al di fuori della pagina cartacea, ma anche al di là di supporti come CD e DVD, medium diventati nell’arco di un decennio già antiquati. Infatti la nostra collana di poesia performativa, multimediale/intermediale per sua natura, deve essere costantemente ripensata e rinnovata per restare al passo con i tempi. Il mondo online va colto per le opportunità che può offrirti, però al contempo va trovata la giusta misura di immersione, altrimenti finisce come nel film cult di Irvin Shortess “Shorty” Yeaworth, Jr, che a forza di navigare nel fluido “blob” del mondo online, finisce che ci affondi e anneghi, senza nemmeno accorgertene.
Che consigli darebbe a un/a autore/autrice che volesse pubblicare un proprio libro di poesia?
Di leggerne tanti prima di voler pubblicare perché se è vero, come disse Valentino Bompiani, che “un uomo che legge ne vale due” allora è altrettanto vero che un uomo che non legge e vuole pubblicare non ne vale nemmeno mezzo. E mentre leggi tanto dedicati anima e corpo al libro che vuoi comporre e credici profondamente. Componi un libro che faccia bene innanzitutto a te stessa/o e poi anche agli altri. I libri sono nati per essere mangiati ma anche, quando la loro grande bocca colma di parole si spalanca, per lasciarci mangiare.
Dome Bulfaro (1971), poeta e performer, tra i più attivi nello sviluppo della poesia performativa. Su invito degli Istituti Italiani di Cultura ha rappresentato la poesia italiana in Scozia (2009), Australia (2012) e Brasile (2014). Ha cofondato la LIPS, Lega italiana poetry slam e ha raccontato il movimento slam, internazionale e italiano, nel libro Guida liquida al poetry slam (2016). È ideatore e direttore artistico del festival PoesiaPresente. È stato tra i primi in Italia a sviluppare e diffondere la poetry therapy. Sue poesie sono state pubblicate in vari Paesi: la prima volta negli USA con la silloge (Ossa, silloge tradotta nel 2006 da Christopher Arigo) e l’ultima nel Regno Unito (3 Ictus, 2016), con poesie tradotte da Cristina Viti. Dal libro Marcia film (Scalino 2016), già in traduzione in Bulgaria, è tratto l’omonimo spettacolo teatrale, regia di Enrico Roveris, che ha firmato tutti gli spettacoli dell’autore.
La rubrica “Scaffale poesia: editori a confronto” è a cura di Silvia Rosa
Intervista di per Radici Digitali
Dall’Accademia dei Pugni alla LIPS
L’Accademia dei Pugni e l’Illuminismo lombardo a metà Settecento, la Scapigliatura negli anni Sessanta dell’Ottocento, il Futurismo fra le due guerre: ogni lustro ha la sua forma di espressione, tipica e significativa. E anche adesso, proprio adesso, in questo primo scampolo del XXI secolo, nel mezzo della contemporaneità liquida, stiamo assistendo alla nascita, ma ormai anche alla maturità, di un fenomeno culturale e poetico di poesia-orizzontale e di poeti-performers. È la LIPS, la Lega Italiana del Poetry Slam, della Slam Family: un movimento che è in grado di muovere migliaia di performer e di poeti, di riempire piazze importanti come quella del Macao di Milano, di agglomerare attorno al verso poetico un interesse popolare che sembrava ormai separato dalla poesia. Tutto ciò mentre la critica “ufficiale” storce il naso e finge di non vedere, perché troppo “rap”, troppo “pop” o troppo “performance”, magari dimenticandosi che la nostra letteratura nasce dalle tenzoni in rima fra due poeti, che si rispondono in maniera comica e aggressiva: il duello (tenzone) fra Dante Alighieri e Forese Donati ne è solo un esempio. Di certo una palestra per il nostro Sommo poeta da giovane.
Ciò che la LIPS ha fatto fino adesso è stato soprattutto lavorare per la diffusione e la promozione di Poetry slam sul territorio italiano, costruire “palestre” in cui i poeti-pugili si possano sfidare nelle tenzoni, a suon di versi e declamazioni.
I Poetry Slam sono competizioni, nate in America e poi diffuse anche in Italia, nelle quali i poeti (slammer) si confrontano, leggendo ad alta voce i propri versi, e vengono giudicati da alcune persone estratte a caso fra il pubblico. Almeno all’inizio, era forte richiamo al mondo dell’hip hop e del rap, le cui origini sono legate proprio a competizioni di questo tipo.
Per cercare di capire meglio e per iniziare a tracciare un inquadramento critico del fenomeno, RadiciDigitali.eu riporta qui di seguito l’intervista a Dome Bulfaro, uno dei fondatori della LIPS.
Dome Bulfaro – Foto di Barbara Colombo (2014)
INTERVISTA A DOME BULFARO
Alessandro Ardigò (AA): Cosa è la Lips?
Dome Bulfaro (DB): La LIPS è la Slam Family d’Italia, cioè un collettivo da cui sono nati un movimento poetico, un campionato di poesia e una associazione. Ma ancora oggi, per diverse ragioni, esiste molta confusione su questi aspetti.
AA: Allora oggi cercheremo di approfondire anche questi aspetti. Intanto, quali sono le principali iniziative promosse dalla LIPS?
DB: La LIPS organizza un Campionato nazionale di poetry slam a cui ha dato natali e nome. Il campionato è la sua azione culturale più evidente, però non è la sola. Ha promosso concorsi, ha creato ponti fra realtà diverse, ha costruito fitte reti di comunicazione e favorito la circuitazione di poeti nazionali e internazionali (compreso Marc Kelly Smith, padre dello slam a livello mondiale) grazie alla promozione di reading e spettacoli. Ha prodotto il primo doppio CD di slam poetry (a cura di ScartyDOC). Lo stesso mio libro Guida liquida al poetry slam è nato grazie all’humus culturale creato dalla LIPS. Ha tolto i poeti performer dal loro isolamento e ha permesso loro di interagire e crescere insieme in mutuo quotidiano scambio.
Guida liquida al poetry slam, 2016 Agenzia X
AA: Il sottotitolo del tuo libro è “La rivincita della Poesia”. Qual è la funzione poetica, nel contesto contemporaneo, di cui la LIPS si fa carico?
DB: La nascita di una Slam Family nazionale ha permesso al poetry slam italiano di passare da fenomeno verticale a movimento orizzontale. Di passare da pochi slam l’anno, selezionati, spesso su invito e ben pagati, a più di duecento slam in tutta Italia, nella stragrande maggioranza dei casi ad iscrizione libera e gratuita. Da pochi partecipanti scelti dall’MC (ndr: Master of Cerimonies), con l’avvento della LIPS si è passati a più di un migliaio di partecipanti. In definitiva la LIPS in Italia ha compiuto concretamente, nella poesia orale, quello che Miguel Algarìn ha definito la “democratizzazione del verso”, processo che si è innescato, come risulta evidente leggendo le vagonate di poesie che pervengono ai concorsi letterari, a partire dal boom economico del dopoguerra. Processo di democratizzazione a cui i poeti del secondo Novecento hanno reagito così paternamente, con un amore talmente iperprotettivo della poesia, da finire col rinchiuderla in una torre d’avorio. Il poetry slam l’ha di nuovo liberata, con tutti i pro e i contro del caso. Va sempre ricordato che lo slam non è la panacea della poesia. È un movimento, quello generato dalla LIPS, che va ben guidato se non si vuole incappare in incresciosi effetti collaterali.
Per quel che mi concerne posso dire che dal 7 luglio 2013 fino al giugno 2016, periodo corrispondente alla fase più delicata, ovvero del processo di aggregazione inclusivo e di regolamentazione del suo funzionamento, sono sempre stato in prima linea. Paragonando la LIPS ad un automobile potrei dire che i suoi fondatori hanno costruito i pezzi dell’auto, li hanno montati, li hanno testati fino a far diventare la LIPS una macchina da corsa al bacio.
Nei primi tre anni ho dato l’anima a tal punto da soffrire di burnout da LIPS per un anno. Se non avessi vissuto la finale nazionale 2017 sgravato da qualsiasi ruolo organizzativo, non sarei guarito e non avrei nemmeno fatto questa intervista.
AA: Quali sono i tratti singolari della poesia di oggi, da come emerge nei poeti della Lips?
DB: Nell’ambito dello slam italiano credo di aver risposto con la Guida liquida al poetry slam, libro che dovrebbero leggere, se non tutti quelli che in Italia s’interessano di poesia, almeno tutti gli slammer.
I poeti che formano la Slam Family Lips sono molto differenti tra loro per stile, preparazione, incidenza nazionale ed internazionale, dentro e fuori dalla cornice slam. Il discorso è molto complesso, ma certamente lo slam da solo non può definire la forza espressiva e incisiva di un poeta. Figure come Rosaria Lo Russo sono di primissimo piano, giusto per citare il caso più evidente, al di là che vinca o meno gli slam.
Si può invece affermare che il movimento della LIPS ha avuto una ricaduta ben visibile, anche fuori dal poetry slam, non solo nella preparazione performativa del testo ma anche nella stesura dei testi, non solo quelli destinati ad essere letti ad alta voce. In ambito performativo, grazie al movimento attuato dalla LIPS, quello che prima un poeta apprendeva in dieci anni, ora lo può apprendere in un anno di frequentazione assidua.
Ogni partecipante per me è uno slammer che ha diritto di sentirsi poeta, per quella sera e per quel pubblico. Da qui ad essere un poeta vero ne deve passare di acqua sotto i ponti. Puoi apprendere il mestiere del poeta ma, che tu frequenti o meno lo slam, poeta o lo sei o non lo sei.
Permangono alcuni difetti radicati da parte della maggior parte degli slammer: si studia poco, si legge troppo poca poesia rispetto a quanto si dovrebbe; si conosce poco persino quello che è accaduto nello slam in Italia; non ci si documenta a sufficienza su quello che accade. È sintomatico dire che per scrivere Guida liquida al poetry slam ho dovuto fare il cane da tartufo per giorni anche sulla più semplice delle informazioni. Insomma registro le stesse lacune dei poeti che partecipano ai concorsi di poesia scritta. In troppi si fermano alla propria necessità di esprimersi o su carta o su palco. La poesia e i poeti vanno e guardano ben oltre.
AA: Quali sono, invece, le argomentazioni di quelli a cui la poesia dello Slam non piace?
DB: Permangono difetti anche da parte dei critici dello slam. Te ne racconto alcuni.
Pare incredibile, ma uno dei concetti più difficile da far capire è questo: se la comunicazione non è finalizzata ad una élite ma ad un pubblico vasto e generico, la poesia tenderà nella maggior parte dei casi ad essere pop; questo non significa che all’interno del suo ampio spettro espressivo non esistano ricerche di altissimo livello (non necessariamente di massa), né significa che la poesia pop non possa essere di alta qualità. A meno di pretestuosi pregiudizi, non è difficile capire e accettare che così come si può produrre cinema industriale d’autore, allo stesso modo si possono comporre, per un vasto e indifferenziato pubblico, performance poetiche d’autore.
L’altro grande limite di approccio critico è il seguente: non si è ancora compreso che nello slam si propone performance poetry. Il testo non è necessariamente concepito per finire su carta. Quelli che criticano un testo slam affermando che “non tiene su carta” dicono una stupidaggine senza confine. È come se si valutasse un film non dalla pellicola ma dalla sua sceneggiatura. Ci sono sceneggiature scritte benissimo e girate male; ci sono registi come Luis Bunuel e tanti altri, con ampia autonomia artistica, che delle sceneggiature hanno tenuto conto fino ad un certo punto. Cosa facciamo allora? Affermiamo che autori come Bunuel e simili non sono dei registi perché le loro sceneggiature non tengono su carta o sono state stravolte sul set? Il problema è un altro: questi critici non hanno ancora compreso qual è il testo nella performance poetry. Non lo sanno decodificare e di conseguenza nemmeno analizzare. E si rifugiano subito dietro la tiritera degli –ismi: il cabarettismo, l’esibizionismo, il giovanilismo…
Il punto nello slam, mutuando una nota citazione di Allan Wolf, non è il voto, il punto è che chi critica è spesso prevenuto. Non si è ancora compreso che il voto è un ingegnoso dispositivo teatrale. Un trucco. Il fatto che la poesia, anche solo per gioco, venga votata non dai critici ma da un pubblico generico, pare risvegli nel poeti “cartacei” critici la loro sindrome da voto. Come tigri della tastiera, iniziano ad assegnare voti a tutti, e anche al pianeta slam nel suo complesso, pur essendo il più delle volte privi di ogni vera cognizione del fenomeno. I più sono come quelli che dopo aver preteso di spiegare ai poveri e ai ricchi cos’è la povertà e la ricchezza, senza mai essere stati né poveri né ricchi, chiudono il loro discorso giudicandoli.
AA: In cosa si distinguono, se si distinguono, i poeti della LIPS da altri movimenti poetici contemporanei?
DB: La Lips, dopo il Futurismo e il Gruppo ’63, ha innescato il più grande e profondo mutamento della poesia italiana contemporanea. Non ha ancora prodotto nuovi poeti, anche perché i poeti presenti nella LIPS, eccetto Francesca Gironi, operavano già prima della sua nascita. Ma non credo sia nemmeno questo il punto. Lo slam è prima di tutto un’esperienza che, attraversandola, ti arricchisce.
La LIPS ha creato i presupposti per la nascita di poeti-performer, ma prima di tutto ha dato loro una palestra in cui crescere a vista d’occhio.
I Tenores di Bitti, durante un concerto, hanno raccontato come avessero imparato a cantare a tenore non da un maestro, ma dal paese stesso di Bitti, piccolo centro sardo abitato da 6000 anime, di cui 1800 cantavano a tenore, chi in modo dilettantesco chi con grande arte, in tutti gli angoli. Hanno imparato a cantare come si impara a parlare, ascoltando gli altri. Lo slam è come il paese di Bitti: un maestro collettivo. La LIPS, creando una fitta rete di relazioni e opportunità di crescita, ha permesso la creazione di quella che possiamo definire una palestra di pugilato a cielo aperto, dove s’impara salendo sul palco e vedendo gli altri slammer sfidarsi sul ring.
Che lo si voglia ammettere o no, la LIPS ha cambiato in soli quattro anni l’habitat in cui si forma e cresce tutta la poesia italiana contemporanea. E non solo quella orale, che certamente ha ricevuto un grande determinante impulso. Con buona pace di tutti, questo movimento di rinnovamento orizzontale non lo può arrestare più nessuno. Fatevene una ragione, perché tutti dovranno, sempre più, farci i conti.
AA: Torniamo ora all’aspetto organizzativo. Siete una numerosissima famiglia, come siete organizzati?
DB: Ora ti racconto. La Slam Family LIPS ha dato vita prima ad un movimento culturale che ha investito l’intero stivale, e poi ad un’associazione, strategica per la realizzazione degli obiettivi che la Slam Family si era posta.
Le date fondamentali per la fondazione della LIPS sono tre, e corrispondono alla nascita delle sue tre componenti essenziali: domenica 7 luglio 2013, giorno dell’avvio effettivo del processo di aggregazione della Slam Family; settembre 2013, mese in cui inizia ufficialmente il primo campionato nazionale della LIPS e 30 novembre 2013, giorno in cui nasce la LIPS come Associazione.
Senza Slam Family il movimento culturale e poetico del quale l’Associazione intende proporsi come promotrice procederebbe in ordine sparso, ad intermittenza, con fili internazionali sfilacciati, come accadeva prima del 2013. Senza Slam Family e movimento slam, l’Associazione non avrebbe alcun senso di esistere. Che la LIPS sia prima di tutto la Slam Family d’Italia lo dimostra anche il fatto che ha sempre operato, anche a prescindere dall’esistenza, ad essa correlata, di un’associazione di volontariato (30 nov 2013 – marzo 2016) o culturale (attiva dal 12 maggio 2017). Come ho scritto nella Guida liquida al poetry slam edito da Agenzia X nel 2016:
Domenica 7 luglio 2013 Sandron, Danieli e il sottoscritto “si ritrovano a casa di Christian Sinicco ad Aviano (Pordenone) a pranzare e a fare bisboccia. Il vino è buon consigliere: si prova di nuovo a costruire una federazione di slam italiana. Si allertano da subito al cellulare Ponte e Garau. Coloro che hanno creduto e guidato la costruzione della Lips sono stati Sinicco, Bulfaro e Ponte. A questi tre va il merito di aver realizzato la LIPS, in un processo inclusivo progressivo condiviso, avvenuto sotto la supervisione di Lello Voce e con il contributo di Sergio Garau. Ma i protagonisti (a cominciare da Giacomo Sandron, Matteo Danieli, Alessandra Racca) diventano una lista che s’allunga di settimana in settimana secondo la legge slam dell’inclusività. Trea gli altri, anche nuove leve come ScartyDoc e Nicolas Cunial al quale si deve l’acronimo.
AA: Per quale motivo, quindi, avete deciso di dare vita anche a un’associazione?
DB: Questa terza e ultima componente ha avuto un ruolo non solo di riconoscimento istituzionale, ma ha costretto la numerosa e complessa Slam family d’Italia ad adottare una prassi democratica. Questo terzo step ha determinato un passaggio di consegne dal trio di fondatori e principali coordinatori, Sinicco-Bulfaro-Ponte alla Slam Family vera e propria. Da questo momento in poi chi ha guidato la LIPS lo ha fatto al servizio di quanto la Slam family decideva all’unanimità o a maggioranza. Un esercizio di democraticità difficile, entusiasmante, talvolta logorante, che ha però permesso al gruppo di crescere ed arrivare ad essere una tra le più robuste e organizzate Slam Family mondiali.
L’anno di non esistenza di un’associazione, dovuta al passaggio da associazione di volontariato ad una culturale, anche se traumatico, ha chiarito ancora di più che la LIPS non dipende da alcun organo istituzionale; ciò nonostante, dotarsi di una propria associazione permette un’azione culturale molto più larga e profonda.
La creazione di un’associazione ha creato un misunderstand su chi siano realmente i fondatori della LIPS. Dal 30 novembre 2013 infatti, al di là dei ruoli istituzionali che le persone hanno ricoperto, la conduzione del movimento è da imputarsi alla Slam family, nella quale i ruoli di Sinicco e mio sono rimasti certamente di primo piano, ma giustamente subordinati alle scelte democratiche operate dalla Family. Il ruolo di Ponte invece è stato centrale solo nell’avvio della LIPS, poi è scemato via via fino a quando, nel maggio 2014, è uscito fuori scena per fondare un proprio campionato con Bruno Rullo. Il suo ruolo mi ricorda quello del pittore Aroldo Bonzagni nel movimento Futurista: è stato firmatario del Primo manifesto di pittura futurista, ma poi è rimasto talmente poco all’interno del movimento che nessuno lo cita più neanche come firmatario. Non arriverei a tanto ma va certamente ridimensionato.
AA: Possiamo “fare un po’ di nomi”? Oltre ai fondatori, a chi dobbiamo la nascita della LIPS?
DB: Delle centinaia di persone che hanno fatto parte o formano questa Slam Family ne andrebbero citate decine e decine. Certamente oltre ai già citati Sinicco, Garau, Voce, Cunial, ScartyDOC, Racca, Sandron, vanno valorizzate quantomeno le figure di Massimo Mirabile, Luigi Socci, Silvia Parma, Andrea Bitonto, Franco Fittipaldi, Pippo Balestra e Marco Borroni, che sono stati i più attivi nel costruire e far avviare i motori roboanti della macchina LIPS. Tra i poeti, Simone Savogin, Paolo Agrati e Francesca Gironi sono i nomi che in questi anni si sono maggiormente distinti con continuità. Agrati, in quest’ultimo anno, anche sul piano organizzativo.
Un ruolo cruciale nella Slam Family lo ha invece avuto a partire dal 30 novembre Lello Voce, “slampapi” d’Italia e Presidente onorario dell’ass. LIPS, che ha funzionato sempre da supervisore, ispiratore, attivista. Un lavoro organizzativo enorme a livello nazionale è stato compiuto negli ultimi tre anni, con e senza associazione, da Elena Gerasi.
L’altro grande nome da affiancare a Sinicco, me e Voce è senz’altro Sergio Garau, attuale guida della Slam family e Presidente in carica della nuova associazione, sempre coadiuvato, in Sardegna prima e a livello nazionale ora, dall’immancabile Giovanni Salis. La LIPS non poteva avere uomo migliore al suo volante. Garau è, dopo Voce, la figura simbolo dello slam italiano. Presente fin dal 2002 come appartenente allo storico collettivo Sparajurij prima e col proprio nome poi, è il più longevo autore slam italiano. L’unico riconosciuto come slammer anche a livello internazionale prima che la LIPS creasse tutti i presupposti per offrire, anche a Savogin, Agrati e ad altri, la possibilità di avere risonanza fuori dall’Italia.
Sergio Garau, attuale presidente della LIPS (foto di Bohdan Piasecki)
Andando a vedere nelle singole regioni, in questi primi quattro anni sono tante le persone che hanno dato e stanno dando tanto alla crescita del movimento: a partire dalla scena torinese degli Atti Impuri, passando per i collettivi ZooPalco (Bologna), PSA (Abruzzo) e I Mitilanti (La Spezia), fino ad arrivare a tutti i coordinatori e vice LIPS che si sono succeduti dal settembre 2013 a oggi. Un riconoscimento particolare va dato alla Lombardia che dalla nascita della LIPS ha funzionato da locomotiva di tutto il movimento slam: i moti culturali creati da Mille Gru di Monza, associazione che ha fatto da braccio destro della LIPS, da l’Arci Fuorirotta di Treviglio (BG), da Abrigliasciolta di Varese, da Bloom di Mezzago e da Macao di Milano, per citare le realtà più significative, hanno fornito rinnovata energia di sviluppo e ricerca.
Va detto, in ultimo, che la LIPS ha cercato da subito di essere qualcosa in più di una Slam Family. Il processo di aggregazione era spinto sia dalla volontà di confederare in un unico campionato tutte le scene e le figure più importanti dello slam italiano, sia dall’intenzione di includere tutte le persone che avessero voglia di costruire un movimento di rinnovamento della poesia, non necessariamente legata all’oralità.
Marc Kelly Smith, ideatore dello slam mondiale, durante le finali LIPS 2014 Festival PoesiaPresente (a cura di Mille Gru), foto Barbara ColomboLa giuria mentre si appresta ad assegnare una voto a una poesia – Finali LIPS 2014, Festival PoesiaPresente (a cura di Mille Gru), foto Barbara Colombo
Bibliografia consigliata
- D. Bulfaro, Guida liquida al poetry slam, Agenzia X, 2016
- AA. VV., Slam – Antologia europea, Maledizioni, 2007
- M. Borroni (a cura di), Incastrimetrici, Arcipelago edizioni, 2009 (vol. I), 2009 (vol. II), 2013 (vol. III)
Autori: Arianna Sardella, Alessandro Ardigò